Nel 1958 il geniale René de Obaldia scrisse “Le défunt” con l’intento di rincorrere l’assurda ambizione di un nuovo significato del mondo e della vita.
Davide Rossetti e Salvatore Amabile portano in scena al Teatro Oberon “Confidences entre Julie et la madame” ovvero dialogo impossibile per due voci folli, una rivisitazione del testo del drammaturgo francese, con la regia di Monica Varriale, che con l’eleganza e la minuzia cara ai poeti greci si è occupata anche della traduzione italiana dell’opera originale.
Entriamo nel vivo della rappresentazione, concedendo ai lettori di questa testata il privilegio di un’intervista con Davide e Salvatore.
- “Il fine dell’uomo è la donna, il fine di quest’ultimo è il figlio: l’uomo diventa superfluo, in quanto la donna cerca di espellerlo o ridurne l’importanza”, per citare un aforisma caro ad uno dei più grandi filosofi della storia, Friederich Nietzsche. Cosa pensa, a riguardo, ciascuno di voi?
Salvatore :”Giulia, la protagonista reale, la protagonista che è all’interno della scena e nell’ordine consequenziale di tutto lo spettacolo e del testo teatrale, traspone in Vittorio quella che potrebbe essere la sua identità rivolta all’eterno: ogni madre, ogni essere umano, vuole carpire il suo momento, anche cosmologico della sua vita, appunto l’eternità. Giulia raggiunge la completezza con Vittorio, e su Vittorio riflette tutti i suoi labirinti e tutte le sue gabbie; è esattamente la stessa cosa che farebbe una genitrice nei confronti del figlio, lo accetterebbe sempre, in un dualismo perpetuo, dal momento che ogni madre accetta persino quella che non è la sua completezza assoluta, il suo riflesso nei confronti del figlio. Tuttavia, tale attività viene svolta a priori quando ci si affida a qualcuno: Giulia è persa nella sua follia, ma è persa prima con Vittorio; di conseguenza il tutto si va a collegare con quello che potrebbe essere riassumibile dall’aforisma di Nietzsche in quella che è la completezza: una donna è mamma quando è completa; Giulia è mamma perché è donna, però è completa con Vittorio, che è il suo figlio cattivo, oltre ad essere il suo grande amore“.
- Michelangelo Antonioni e la sua “Trilogia”: al centro tre storie d’amore e il difficile rapporto tra i sessi:”L’avventura”, “La notte” e “L’eclisse”. L’avventura parla di uno smarrimento, quello di Anna, durante una gita tra amici sulle Isole Eolie. I protagonisti (Monica Vitti e Gabriele Ferretti, rispettivamente Claudia e Sandro) sono un’amica e il compagno della donna che si è persa; i due cominciano una ricerca disperata che non si concluderà mai, ma nonostante questo, si trovano presto coinvolti in una storia, che finisce a sua volta con una nuova rassegnazione. Il vuoto non è solamente quello lasciato dalla scomparsa di Anna, il vuoto è esistenziale, totale, insanabile. L’amore è illusione, e la distanza tra uomo e donna è grande, non colmata dall’amore. Siete d’accordo?
Davide :”L’amore è un sentimento che decisamente fa giocare di più l’uomo e la donna, e diciamo che li fa giocare perché è qualcosa che forse, in fondo in fondo, ostacola un rapporto, ma non soltanto tra un uomo e una donna, bensì anche tra persone dello stesso sesso; ahimè, per il nostro genere umano, ovvero per noi umani, l’amore è di certo un grande limite, il nostro tallone d’Achille: quando “Falling in love” per noi è finita; siamo razionalissimi nel momento in cui non amiamo. L’innamoramento molto spesso viene confuso con l’amore, trattandosi di una fase meravigliosa, come diceva Francesco Alberoni, che permette di camminare sulle punte con le alette alle caviglie simili a Mercurio; l’amore, invece, annienta, spersonalizza, deteriora l’animo, è quello che tiene legati a tutto ciò che non è la passione, bensì la paura di perdere, dato che il nostro amore è concepito come possesso. E’ molto difficile poter naturalmente discernere la parola amore, che se colta nell’accezione cristiana rappresenta il rispetto, la libertà per l’altro; quando siamo insieme, dunque coinvolti anche sessualmente dalle passioni, vogliamo impossessarci di un tutto; ed è questo che poi, probabilmente, fa scattare determinate dinamiche che molto spesso sfociano nell’incomprensione, nell’incompatibilità e, addirittura, nei casi estremi nell’omicidio, nell’uxoricidio, perché si è talmente coinvolti che l’amore acceca.
Salvatore :”Oltre a ciò che ha detto Davide riguardo l’amore, vorrei aggiungere un pensiero di Andrea De Carlo: ci si accompagna molte volte a quello che è il riflesso di ciò che abbiamo dentro, non perché lo ritroviamo, piuttosto perché ci illudiamo e ci riflettiamo in quello specchio; paradossalmente, l’amore non è altro che ciò che vorresti concretizzare ma che hai dentro di te. L’illusione, come nel caso di Giulia, è di averlo trovato in Vittorio, eppure Vittorio è tutt’altro, dunque soltanto con gli occhi attraverso i quali si osserva una cosa che ci si innamora, perché sono i propri occhi”.
- “Uomo e donna possono confrontarsi solo smettendo di cercare di colmare la loro differenza ontologica con l’amore, ma accettando le diversità e le proprie peculiarità. Uno realista, razionale, la donna più intuitiva e sensibile. Pensate che questi cliché siano giusti o sbagliati?“
Salvatore :”Assolutamente errati, perché non ci si innamora mai tra corpi, bensì tra anime; l’anima è composta da una parte sia maschile che femminile, oltre al proprio ego che non ha sesso; di conseguenza ci si innamora, e l’equilibrio si raggiunge solo quando si abbandona, almeno stando alla mia esperienza personale, la zavorra, il costrutto psico emotivo che ci si trascina dietro. Probabilmente io sono più facilitato, dato che non mi definisco con una sessualità, orientamento, o quant’altro, però mi rendo conto che purtroppo (e aggiungerei per fortuna) siamo tutti diversi. E’ raro trovare quell’amore che sia di accettazione e di completezza.
- La società postmoderna, strutturalmente “Liquida” come indicato dal grande sociologo Bauman, non favorisce le relazioni fra gli uomini, in generale, per cui la difficoltà del rapporto uomo-donna è solo uno degli aspetti della solitudine dell’essere umano?
Salvatore :”Bauman l’ha tradotto soltanto con quella che è, metaforicamente, l’assoluzione della società e del vissuto tra rapporti sociali; mi va bene che la società sia liquida, che sia fluida, dipende dal contenitore su cui si deposita, per un unico motivo: ognuno di noi necessita di prendere forma nelle relazioni che instaura, di conseguenza trovarsi l’alibi di essere liquidi o fluidi. Noi partiamo da un sentimento ancestrale, la paura: se siamo fluidi o liquidi dovremmo essere anche freddi, ma quando è che si innesca la passione, il timore, l’orrore di perdere un qualcosa, l’inadeguatezza dello stare accanto a qualcuno? Nel momento in cui si ha paura che qualcosa venga tolto, sottratto, da dentro; di conseguenza, è vero che siamo liquidi, fluidi, però siamo costituiti, al di là di ogni cosa, da una radice che proviene da dentro, che induce poi a dover condizionare le relazioni a seconda delle circostanze. Ecco perché, come dicevo all’inizio, dipende dal contenitore sul quale ci depositiamo: ogni liquido prende la forma del contenitore su cui viene riposto.
Davide :”La fluidità oggi purtroppo viene usata come un’espressione di massa, o meglio un alibi, per cercare di giustificare un concetto ancora ignoto ai più: la gente non sa realmente cosa sia l’omosessualità, come si nasca omosessuali; molte volte ci si chiede come lo si scopra, manco fosse l’America! Mi rivolgo alle classi giovani, dato che noi cerchiamo, attraverso il teatro, di lanciare un messaggio, malgrado siano sempre più rare le presenze giovanili in platea: la fluidità per sua essenza rappresenta qualcosa in continuo dinamismo, è un concetto che posso comprendere io, alla mia età, non un adolescente; immaginiamo un ragazzino di sedici anni, nella sua fluidità, convinto che il fluid gender sia solo una moda. Vestirsi da donna, assumere atteggiamenti femminili, non significa essere omosessuali o eterocuriosi. E’ il nulla“.
Salvatore :”Non è altro che un’esternazione di ciò che si pensa potrebbe essere un’identità, ma quest’ultima non la fa il legarsi ad un movimento, l’identità si ottiene estraendosi completamente dal movimento: è un’aporia dire di essere fluidi, di vestirsi senza schema, perché alla fine non è il vestirsi, è il pensiero, la natura, l’appartenenza, il sentimento“.
Davide :”Nella nostra idea di fare questo spettacolo, portato in scena già altre volte, abbiamo cercato di essere molto attenti affinché non arrivasse assolutamente il fenomeno dell’ En travesti, perché non è questo il messaggio: Giulia e la de Crampon non sono due personaggi per i quali Davide e Salvatore indossano gli abiti di una donna, perché, di fatto, non lo siamo: noi siamo con i calzoni, emblema metaforico della mascolinità, addirittura le bretelle, un bustino da torero, e restiamo uomini; io in primis non mi sono depilato il petto, sono un uomo e mi sento uomo, ma è proprio lì, dentro di me, dove uso determinati oggetti scenici, metaforicamente penso al cappello, come ad esempio il vezzo della piuma ricorda il pappagallo, gli uccelli, che poi vengono perennemente nominati sempre Vittorio. I costumi sono stati una nostra scelta, Salvatore si è creato il suo, io il mio, con un’armonia all’unisono, trovandoci perfettamente in linea; mai avremmo pensato di indossare una gonna!“.
Salvatore :”Abbiamo svolto altri lavori in ambito esperenziale e teatrale, e con indumenti, ma in questo spettacolo si trascenderebbe e si rischierebbe di pensare all’En travesti, lezioso, superficiale, puerile; è un lavoro in cui si può scivolare molto facilmente. Noi portiamo l’identità di una donna che è traviata dal suo amore, perché lei lo ama alla follia, denudata, pur sopportando tutto di costui. Alla fine impazzisce e si perde in quello che è non l’amore di Vittorio, nel suo amore per Vittorio, che è diverso: può darsi che Vittorio non l’abbia mai amata nel corso della sua vita, e che lei abbia immaginato tutto, come accade a tante persone. Al termine dello spettacolo vi è una frase che recita “Tutte le donne amano un Vittorio, ed hanno tutte bisogno di un mostro per giustificare i propri labirinti”: Vittorio è un mostro, e non è detto che i labirinti in cui Vittorio ha condotto Giulia non esistessero già“.
Davide :”Sono i labirinti classici nei quali si perde l’universo femminile: questo lavoro è proprio un inno alla donna, come lo ha definito qualcuno. Io neanche l’avrei mai pensato: sai qual è la cosa magica di questo spettacolo, che io ho interpretato tre volte nella mia vita (Negli anni Settanta, nel Duemila ed oggi)? Ogni volta che lo portiamo in scena, con regie naturalmente differenti, mi sono divertito alla stessa maniera, perché ho riscontrato sempre un messaggio subliminale; d’altro canto le regie ci indicano come muoverci, dato che noi siamo pedine nelle loro mani, però si crea insieme, e noi in quanto duttili siamo anche coesi nel prendere decisioni comuni: l’idea è partita da Monica con la lettura del testo, e noi che rappresentiamo questo lavoro siamo la dimostrazione che si debba, con questi cinquanta minuti, che sono veramente tanti, lasciare il pubblico con un sogno! Il tempo è fondamentale, conta essere pragmatici, altrimenti, se si tratta di teatro in prosa o metateatro, la gente dopo mezz’ora perde l’interesse. Questo spettacolo ci permette di pronunciare frasi come quella cui prima accennava Salvatore :”Tutte le donne amano un Vittorio, ed hanno tutte bisogno di un mostro per giustificare i propri labirinti”; una frase pesante come un macigno, la cui risonanza giunge soltanto se si segue attentamente la pièce.
- “Solitudine dell’uomo da un punto di vista esistenzialista, incapacità di comunicare con gli altri e di vedere in loro un prossimo, un’ancora di salvezza per l’angoscia di esserci: ne parlava Camus nel suo teatro, descrivendo la condizione dell’uomo e i turbamenti dell’animo umano di fronte a quell’assurdo definito “Un divorzio tra l’uomo e la sua vita”, nel suo “Malinteso” , il primo dramma da lui scritto nel quale l’autore affronta il tema dell’incomunicabilità e della paranoia: alla fine tutti sono vittime delle “Assurde” contraddizioni della storia: l’oscurità e la luce, il delitto e l’innocenza, il male e il bene, la giustizia e l’ingiustizia. Ne parlava Sartre, concependo l’uomo come “Passione inutile”: con l’altro il rapporto è impossibile, perché sotto la violenza dello sguardo l’altro appare al soggetto come sua negazione, limite della propria libertà, minaccia del proprio possesso; da qui la celebre massima “L’enfer, c’est les autres”, l’inferno sono gli altri. Ibsen in “Casa di bambola” mette in scena un dramma in cui si getta un’ombra sinistra sull’incomunicabilità, che diventa un muro all’interno della stessa famiglia. La storia è nota: la giovane Nora, moglie di Holmer, ha falsificato un documento per salvare la sua famiglia; è sempre stata una figlia obbediente e una moglie adorata, basti pensare agli appellativi paternali che il marito le riserva :”Lodoletta, scoiattolino, bambina, lucherino sventato”. D’un tratto, però, Nora viene travolta da un radicale cambiamento, svestendo i panni della “Bambola”, imprigionata nella situazione, comoda, prima di figlia e poi di moglie senza personalità. Nel momento in cui la giovane chiede al marito di parlare è chiaro che, dolorosamente, Holmer non comprende nulla di chi gli sta davanti: un apologo sulla disperazione e sull’incomunicabilità, su quanto sia difficile leggere davvero nella mente di chi ci circonda e ci vive accanto. Ne “Il giocatore” di Dostojevnskij troviamo invece una donna che sottomette un uomo, trattandolo sempre come uno schiavo e senza mai ricambiare il suo amore. Čechov in “Tre anni” affronta il tema dell’incapacità di comunicare e quindi di entrare realmente in relazione con l’altro, configurandosi, tale incapacità, come una condizione a cui l’uomo è destinato. Tanti autori, magistrali opere, per un unico tema: la differenza ontologica tra uomo e donna o, in senso lato, tra esseri umani. Si dice che ogni volontà voglia solo se stessa, che desideri continuare e sacrifichi tutto ciò che la circonda: ecco l’incomunicabilità tra volontà singole, che scorgono nell’altro solo un intralcio. L’uomo è solo, chiuso nel suo desiderio. Solo e sofferente, come riteneva Schopenhauer. Tuttavia, alcune differenze non sono strutturali ma nascono da un’educazione culturale e da condizionamenti millenari: l’uomo padrone e capo famiglia, la donna succube e servizievole; da qui nascono violenze e inganni. Dall’incapacità di accettare di aver perduto il proprio ruolo e la propria identità fasulla e costruita. Qual è la vostra opinione in merito?
Salvatore :”Purtroppo, per quanto ci riguarda, oggi come oggi l’educazione culturale incide in modo estremamente crudele; alla donna è stato tolto il suo ruolo importante, ma non nella vita attuale. Si parte da una detronizzazione femminile come madre, madre non del figlio, bensì madre di vita: in tutte le religioni arcaiche, in tutti i riti ancestrali, la donna è stata sempre venerata come portatrice di vite e procreatrice. Alla donna è stato decentrato tale ruolo, purtroppo, perché nella società postmoderna ci sono stati tanti cambiamenti: quello che doveva essere il custode del potere della donna, della dea madre, ed onorarla, era l’uomo, ed è stato edulcorato dagli usi e costumi attuali; intendo edulcorato con riferimento alla visione della donna come moglie e madre. La donna custodisce qualcosa che è solo suo, l’utero. Dall’utero nasce la vita, dall’utero nasce il potere immenso di renderci eterni. Nella dicotomia che viene portata oggi, ed alludo anche al nostro spettacolo, tale concetto è di rimbalzo: noi portiamo in scena due donne, che malgrado Vittorio sia morto lo piangono ancora; se Vittorio non ci fosse stato la de Crampon e Giulia non avrebbero avuto alcun ruolo nella vita sociale; nello spettacolo, infatti, c’è qualcosa di terreno e di etereo. L’anima nera, terrena, dello spettacolo è Giulia, il folleggiare etereo della de Crampon è invece il rimando tra il terreno e la sublimazione di un corteggiamento della stessa; la de Crampon ha la sua maestria, la sua arte da vecchia civetta che ha raggirato Vittorio. Costui alla fine si rivela un fantoccio nelle mani di queste due donne, ed è per questo che egli ha avuto anche il lusso di essere un mostro, non essendosi in realtà mai identificato. Vittorio non ha un’identità, mentre Giulia è ferma nell’essere se stessa, proprio come la de Crampon.
L’uomo, condannato da una condizione assurda e terribile, risulta dunque incapace di costruire un universo di amore e di armonia, ma soprattutto di investire la propria energia in progetti comuni ad altri uomini, accomunati se non altro dal medesimo, tragico destino?
Credo di no, egli deve continuamente inventare la propria vita, in quanto “Animale non ancora stabilizzato“, come diceva Nietzsche, scoprire i propri valori e trovare il contatto con gli altri, senza schivare le differenze e l’irripetibile unicità di ogni essere. Solo così l’essere umano potrà sentirsi, si gettato nel mondo, ma insieme agli altri, scoprendo il NOI e occultando l’IO. Non più straniero da solo, ad un mondo ostile ed indifferente, ma riscoprendo per sempre il valore della parola più bella che ci sia: l’umanità, intesa come insieme degli uomini con gli stessi limiti invalicabili, il cui senso può ridarci la nostra reale dimensione.
Sarà questo il modo per superare “L’urlo di Munch“, quell’immagine così angosciante dell’uomo che grida al mondo la sua disperazione e la sua solitudine.