In un bella giornata di fine estate romana e quando al nord sembrava già inverno, il capo del governo e del partito di maggioranza trovava l’accordo con i parlamentari della minoranza del partito di maggioranza per fare la riforma del Senato. Un compromesso ci volle, per non fare la figura di quelli che sempre parlavano di riformare il Senato e mai si mettevano d’accordo. Il giovane capo del partito di maggioranza capo pure del governo più non ne poteva di dover far finta di ascoltare quelli del suo partito che non si allineavano perfettamente alle sue grandi idee; e l’idea di sradicare il bicameralismo perfetto, perfettamente il linea con l’idea di “rinascita” di un illustre corregionale del capo del governo, perfetta pure per nominare ministra senza portafoglio (ma con gran conto in banca) la sua giovanissima consigliera giuridica, nella concezione “no limits” di governo del capo del governo, era davvero una grande idea. Per altre faccende, dei più rompiscatole del partito aveva fatto volentieri a meno, tanto i voti dei suoi petali (“il giglio magico” li chiamavano i giornali), insieme a quelli dell’opposizione erano stati molto più che sufficienti per approvare le leggi volute da lui e guardacaso dai partiti d’opposizione.
In materia elettorale però, maledizione, non era affatto semplice accontentare tutti. Tutti chiedevano qualcosa, tutti volevano qualcosa e nessuno era disposto a rinunciare all’unghia di nulla. Chi voleva il modello tedesco chi quello francese, chi l’uninominale secco chi il doppio turno, chi il maggioritario chi il proporzionale. Tutti invece, ma proprio tutti, volevano garantirsi ancora seggi in Parlamento. Il giovane capo del governo, pur di non avere brutte sorprese, aveva persino fatto un patto col vecchio capo dell’opposizione, che dal Parlamento era stato espulso per qualche marachella fiscale eppur continuava a fare il capo della sua parte politica; senonché quello, il vecchio, solo perché il giovane non l’aveva consultato quando si doveva scegliere il nuovo presidente della Repubblica, dalla sera alla mattina aveva deciso di rompere quel patto, almeno nella parte che riguardava la legge elettorale. Inoltre il vecchio voleva che il sostanzioso premio di maggioranza buono per governare senza impicci, che lui e il giovane capo avevano concordato per minimizzare l’opposizione parlamentare, andasse alla coalizione vincitrice le elezioni, mentre il giovane aveva deciso che quel premio andasse al primo partito, cioè al suo partito, tutt’al più ad una singola lista contenente una coalizione agguattata e complicata. Stando così le cose, “l’italicum”, la nuova legge elettorale della Camera dei Deputati che il giovane capo propugnava per sostituire la legge dichiarata incostituzionale e chiamata “porcellum” a tutta offesa dei maiali, lui, il giovane capo, era riuscito a farla approvare quasi da solo qualche tempo prima, nel mese di maggio, dopo che le opposizioni per protesta non avevano partecipato al voto e qualche sbruffone del suo partito gli aveva addirittura votato contro. Adesso però, per riformare il Senato e trasformarlo in un’assemblea grosso modo consultiva, rischiava di non riuscire a convincere i soliti rompiscatole del suo partito e di non avere i voti necessari per far approvare la nuova legge in seconda lettura, come regole di procedura sorpassate e ridondanti richiedevano. In sostanza, il giovane capo voleva i “nuovi” senatori nominati dai consiglieri regionali e fra i consiglieri regionali, i vecchi rompiscatole del partito dicevano di volere i senatori eletti dai cittadini. Allora il giovane capo e i suoi compagni/oppositori di partito (ma il giovane capo di “compagni” proprio non voleva sentir parlare) decisero di riunirsi in una lunga riunione di partito, perché il loro partito era quello più democratico di tutti e le decisioni si prendevano solo dopo lunghe discussioni; che poi alla fine si facesse sempre quello che decideva il giovane capo agli oppositori poco doveva importare visto come, ogni volta, andavano in tv a dire che erano contro ma che avrebbero votato a favore. E così fu anche quella volta… In quella estate solo uno fra i rompiscatole, un monzese con la faccia sempre sporcata da un filino di barbetta rossa, giovane come il capo e pure suo amico quando erano ancora più giovani e volevano cambiare il mondo, si era stancato di dover accondiscendere il capo e se n’era andato dal partito. Quindi, ramingo e un po’ schizofrenico, si era messo a raccogliere firme per fare dei referendum contro le leggi volute dall’ex suo capo e suo amico e che pure lui ne aveva votata qualcuna…Le firme necessarie non sarebbe riuscito a ottenerle, in compenso qualcun altro di lì a poco lo avrebbe seguito abbandonando il partito in polemica col giovane capo.
Durante la discussione parlamentare sulla riforma del Senato buontemponi dell’opposizione, in particolare un bergamasco secessionista che purtuttavia qualche anno addietro non aveva avuto esitazioni a fare il vicepresidente del Senato della Repubblica una e indivisibile, dall’aspetto molto più simile a una maschera bergamasca avvinazzata che a un senatore e il cui gran vanto era quello di aver “grugnito” una legge elettorale, presentavano contro la nuova legge del Senato 82 milioni di emendamenti, fatti con un algoritmo elaborato da valenti scienziati dell’Università della Val Brembana. Il presidente del Senato, ex giudice, minacciava di fare arrestare il bergamasco e quello immediatamente tagliava 10 milioni di ostruzionismi. Ne rimanevano ancora 72 milioni, ma ormai già tutti capivano che sarebbero spariti anche quelli nel giro di pochi giorni…
Nel partito di maggioranza invece, il giovane capo e i suoi compagni/oppositori si riunivano in una riunione di partito e dopo molte ore di discussione si accordavano su tre emendamenti alla legge, partorendo il compromesso. Semplice e accomodante, pienamente italiano, anzi, italiano fino all’eccesso: senatori eletti dai cittadini fra i candidati consiglieri regionali. Si votava per la Regione ma si eleggeva pure il Senato. In verità il testo della legge non era molto chiaro, e “la conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi” si prestava a diverse interpretazioni e non poche tendenziose, ma i più bravi di quelli che avevano partecipato alla riunione del partito del capo facilmente la spiegavano.
Era così che alla fine di quell’estate in Italia si trovava la via per fare il Senato su base regionale, dandogli le funzioni delle Province, che dovevano essere abolite, ma nessuno sapeva quando. A Napoli qualcuno, cazzeggiando, lo ribattezzava il “nuovo Senato riformato”.
Dopo l’estate, nel corso dell’autunno e dell’inverno il giovane capo del governo dovette affrontare altre e piuttosto impegnative faccende, fra cui un paio di mozioncelle di sfiducia al suo governo, una delle quali causata proprio dalla ministra senza portafoglio (ma con babbo ingombrante) che dava il nome alla legge che di fatto aboliva il Senato; nel frattempo il Senato votava due volte per l’abolizione di se stesso e ugualmente faceva la Camera contro il Senato, completando le quattro letture che l’articolo 138 della noiosissima Costituzione prevedeva per le leggi costituzionali e di revisione costituzionale. Il giovane capo del governo e la sua ancora più giovane ministra senza portafoglio (ma con gran portamento), nel giorno dell’ultima lettura, il 12 d’aprile, a due anni dalla prima presentazione del disegno di legge, proclamavano quel 12 d’aprile “un giorno storico”.
Storico o meno, il capo e la ministra, forse troppo emozionati, non si rendevano conto di parlare ai soli scranni della Camera, che perlopiù risultavano vuoti dei titolari. Non era la prova generale dello spettacolo, era proprio lo spettacolo, solo che le opposizioni non c’erano, e ugualmente molti del primo partito di maggioranza. Una settimana avanti, il principale avversario di partito del capo del governo gli aveva detto in faccia, proprio come piaceva al capo, di non possedere la statura del leader ma di coltivare l’arroganza del capo. Il giovane capo, immobile e con sguardo sostenente, anziché offendersi, gongolava.
E pure quando un rappresentante dell’opposizione di sinistra, in quel magnifico 12 d’aprile, prendeva la parola per spiegare i motivi dell’assenza in aula della sua parte politica, il capo, fingendo di ascoltare, gongolava, a fianco della sua ministra senza portafoglio (ma pure lei con gran senso di gongolamento).
Piccolo imprevisto: la noiosissima Costituzione prevedeva che, se nella seconda deliberazione (terza e quarta lettura) non si fosse registrata in ciascuna Camera la maggioranza dei due terzi, la legge veniva sì approvata ma con l’obbligo di un referendum popolare. Senza indugi il giovane capo baldanzosamente annunciava che lui stesso avrebbe raccolto le firme per fare il referendum. Tanto si trattava di referendum confermativo, senza quorum. Mica come quello abrogativo, con quorum, che si sarebbe svolto per un’altra rognetta soli cinque giorni dopo e per il quale il capo aveva consigliato l’astensione…Che razza di furbastro, il giovane capo.
Il “nuovo” Senato della Repubblica
Il nuovo Senato non sarà eletto contemporaneamente alla Camera dei Deputati e non sarà più protagonista nel processo legislativo.
Si passa da 315 senatori a 100 senatori, che rappresentano le Regioni e i Comuni: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, altri 5 senatori nominati dal capo dello Stato. Saranno i consigli regionali a nominare i nuovi senatori, fra gli stessi membri del consiglio e i sindaci della Regione. I cittadini sceglieranno alle elezioni regionali i candidati per il doppio ruolo di consigliere e senatore, con successiva ratifica delle assemblee regionali. Come faranno i cittadini a scegliere? Non si sa…La legge specifica non è stata ancora scritta.
Il numero dei seggi assegnati a ciascuna Regione varierà in base alla popolazione regionale, in ogni caso non meno di 2 (un sindaco e un consigliere regionale) per Regione.
I nuovi senatori non percepiranno stipendi o indennità aggiuntive, ma godranno di immunità parlamentare.
Con la riforma, solo la Camera voterà la fiducia al governo e sarà titolare della funzione legislativa. Il Senato diventerà un’assemblea con funzioni consultive, che potrà esaminare le leggi e proporre modifiche, che tuttavia non saranno vincolanti per la Camera. Faranno eccezione le leggi di revisione costituzionale, che continueranno a necessitare dell’approvazione di entrambi i rami del Parlamento.
Dopo settant’anni finisce il bicameralismo perfetto o paritario, introdotto dai “padri costituenti” per difendere la Repubblica dal pericolo delle dittature. Alcuni studiosi sostengono che la riforma del Senato, unita alla nuova legge elettorale, sia la base per un nuovo modello di democrazia, la “democrazia autoritaria” o “dittatura della maggioranza”.