Il Regno Unito non farà più parte dell’UE. Almeno questa è la decisione della vox populi ieri, 23 giugno 2016. Dopo 40 anni gli inglesi hanno deciso di lasciare l’Unione Europea, con volontà di uscire votando al referendum per il “Leave” (lasciare l’Europa) con il 51,9% dei consensi che ha battuto il fronte Remain (restare in Europa) che non supera il 48,1%. Il risultato lascia sbigottiti prima di tutto i sei fondatori dell’Unione – i capi di stato di Francia, Germania e Italia hanno scambiato subito telefonate per parlare delle conseguenze di questa drammatica scelta. L’Europa riceve un sonore ceffone, e una pernacchia da chi questa unione l’ha sempre bistrattata. Perché, come fa notare qualcuno, l’Inghilterra non ha mai brillato per spirito europeista, né ha mai assunto una posizione chiara e trasparente. Lo stesso Cameron a poche ore dal voto ha fatto marcia indietro rispetto alla sua campagna pro Brexit – è stato proprio lui a indire il referendum per scongiurare l’avanzata di Ukip – e ha invitato i cittadini a sostenere Remain. Un cambio di direzione che non può non stupire e lasciare interdetti, tant’è che il premier oggi ha rassegnato le dimissioni. Su Repubblica poi si legge lo sdegno della scrittrice Rowling secondo la quale Cameron verrà ricordato come l’uomo che ha distrutto due unioni: quella europea e il Regno unito. Infatti, prima ha fatto il danno e ora da’ le sue dimissioni. Logico, semplice, efficace.
La reazione della stampa. La BBC apre con: “E’ un terremoto”, mentre The Telegraph condensa tutto l’ orgoglio indipendentista e antieuropeista di Farage con parole di forte impatto: per la testata la vittoria di Brexit è come “una liberazione dai carcerieri”, dall’altra parte della barricata The Guardian: “ Il fattore determinante? L’immigrazione” e cerca di analizzare come e perché si sia arrivati ad una decisione di tale drastica irreparabilità per la Gran Bretagna. Il Financial times: “Un voto che potrebbe segnare la fine del Regno Unito”, mentre oltreoceano con amarezza New York Times sottolinea così la preoccupazione per la perdita di uno dei più importanti paesi membri dell’Ue: si tratta de “La prima nazione a uscire dal blocco europeo”. Il timore del quotidiano è quello di un terremoto politico per il sistema Europa, con la preoccupazione che i partiti della destra xenofoba e nazionalista – Le Pen in Francia, Alternativa in Germania e il partito di Gert Wilder in Olanda, per non parlare di Trump in USA – potrebbero cavalcare l’onda di Brexit e incrementare i loro consensi popolari. Poi NYT chiude: “ma questa, anche per New York, è la giornata della paura”.
La borsa crolla. I dati non sono certo confortanti, la borsa sul filo del rasoio del venerdì nero con il crollo dei mercati asiatici e una discesa del valore della sterlina che riporta al 1985. Sempre su Repubblica si legge che nei prossimi mesi ci sarà il rischio di una recessione economica e una fuga degli investimenti fuori dal Regno Unito. Una bella gatta da pelare, da soli, stavolta.
No UE, vince l’egoismo nazionale. A cosa sono serviti allora 40 anni di Europa, a imparare il “salto” del gambero? Il Regno Unito baluardo di pluralismo, integrazione e accoglienza, terra foriera di una lingua globale e amichevole, intuitiva e snella come una frontiera disinibita, e tuttavia così autoritaria che oggi devi conoscerla o non sei nessuno in Europa (e nel mondo), ha dato credito ad una ondata nazionalistica e populista di memoria ottocentesca. La speranza che i capi di stato ripongono nell’unione ora è quella di rafforzare il sistema, restare compatti ed evitare l’effetto domino. Quello che si dovrebbe fare è avvicinare l’Europa alla gente, rompere la burocrazia e favorire una politica comune basata su una riduzione significativa dell’austerità. E come scriveva Victor Hugo, da oggi non siamo europei, siamo uomini. E salviamola, questa umanità, al di là delle bandiere e di quell’egoismo chiamato patria.