I dati disponibili sul numero di reati di violenza sessuale sulle donne denunciano una situazione estremamente grave. In Italia oltre 6 milioni nella fascia tra i 16 a 70 anni ne sono state vittime.

Secondo l’ISTAT (dati 2025 in corso di aggiornamento): il 21% delle donne ha subìto nell’arco della propria vita una qualche violenza sessuale, benché l’evidenza non sia in grado di cogliere una percentuale di gran lunga maggiore in rappresentanza di tutti i casi non denunciati che, soprattutto nell’ipotesi di stupro, sono la quasi totalità.

Le ragioni sul perché le donne non siano state e non siano tuttora inclini a denunciare, oltre a riconoscersi in un fattore culturale, risiede anche nella formulazione stessa del reato di violenza sessuale per il quale il legislatore richiede la condizione della coercizione: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito (…)”

La necessità, dunque, del riconoscimento della coercizione, unitamente alla larga diffusione di stereotipi di genere nelle aule di tribunale, sono stati sino ad oggi gran parte della ragione per le mancate denunce e, in taluni casi, la motivazione di sentenze aberranti dove l’inerzia o la passività della vittima sono state scambiate per collaborazione consensuale.

Lei come era vestita? Ha urlato? Si è opposta? Ha tentato la fuga?

A porre un freno alla necessità di dar prova della violenza, è spesso intervenuta la Suprema Corte penale che ha più volte ribadito che nei reati contro la libertà sessuale il dissenso debba esser sempre presunto.

Oggi, proprio con lo scopo di codificare questa linea interpretativa, centro destra e centro sinistra insieme hanno approvato alla Camera un emendamento di modifica al testo dell’articolo 609-bis del codice penale: “Chiunque compie o fa compiere o subire atti sessuali ad un’altra persona senza il consenso libero ed attuale di quest’ultima è punito (…)”.

Il nuovo dettato normativo, seguendo la rotta già indicata dalla Convenzione di Istanbul che definisce lo stupro un “rapporto sessuale senza consenso”, sovverte così la logica del reato, fissando nella centralità del consenso “libero e attuale” proprio quella presunzione di dissenso che la giurisprudenza di legittimità aveva statuito.

Secondo la nuova disposizione, adesso al vaglio del Senato, il consenso dovrà essere prestato senza costrizioni fisiche o morali, al momento dell’atto sessuale ma resterà sempre revocabile per tutta la durata del rapporto.

Se la nuova formulazione si tradurrà davvero in un concreto passo in avanti per la persecuzione dei reati a sfondo sessuale, lo si potrà vedere nel tempo.

Ciò che non si vorrebbe oggi è che la prova del dissenso finisca con l’essere sostituita dalla prova del consenso. Non si vorrebbe infatti che una riforma, indubbiamente positiva sul piano semantico, in quelle stesse aule di Tribunale torni a scontrarsi ancora una volta, per chiare ragioni culturali, con la difficoltà di definire quali e quanti possano essere gli atti rilevanti al fine di stabilire se ci sia stato o meno consenso.

Aspettiamo la giurisprudenza di merito per capire la portata pratica della nuova norma quando questa entrerà in vigore. Nel frattempo, possiamo solo sperare di aver archiviato definitivamente “Lei come era vestita? Ha urlato? Si è opposta? Ha tentato la fuga?”.

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