
La morte è sempre orribile, ma quando a morire è uno scrittore o un poeta, un artista, lo è ancora di più perché pone fine a un pezzo di quella forma estetica che rende accettabile la vita: l’arte.
A lasciarci questa volta, stroncato dal Coronavirus, è stato Luis Sepulveda, scrittore cileno di fama mondiale: era ricoverato da fine febbraio presso un ospedale di Oviedo. Sepulveda è stato tante cose: letterato, attivista politico, anarchico. Classe 1949, giovanissimo entrò a far parte del movimento “Gioventù comunista”, e pubblicò a soli vent’anni il suo primo libro, “Crònicas de Pedro Nadie“, ottenendo una borsa di studio per intraprendere corsi di drammaturgia all’Università Lomonosov di Mosca. La scandalosa relazione intrecciata con una sua insegnante lo renderà peregrino, costringendolo ad abbandonare la capitale russa dopo pochi mesi di permanenza. Rientrato in patria i dissidi con il padre gli varranno l’espulsione dalla Gioventù comunista, a seguito della quale egli deciderà di arruolarsi nell’esercito boliviano.
Una volta ristabilitosi in Cile Sepulveda si diplomerà regista teatrale, continuando nella stesura di racconti, diventando giornalista radiofonico, ed entrando a far parte del partito socialista di Salvator Allende, il primo uomo politico dichiaratamente socialista ad essere mai stato democraticamente eletto alla carica di Presidente di un Paese dell’America Latina. Anticonformista fermo e deciso, Sepulveda venne arrestato e torturato nel 1973, a seguito del colpo di stato del generale cileno Augusto Pinochet. Restò segregato in uno stanzino per sette lunghi mesi, ed Amnesty International rivolse svariati appelli in suo aiuto; in cambio della liberazione lo scrittore cileno ottenne l’esilio per otto anni. Giunse dapprima in Brasile e successivamente in Paraguay, fino a soggiornare nella capitale dell‘Ecuador ricominciando a lavorare in qualità di drammaturgo. Collaborò con l‘Unesco, e dopo aver vissuto in Amazzonia compose un racconto intitolato “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore“. Ottenne la cittadinanza nicaraguaita, lavorando per Greenpeace fino al 1986. Sposò Carmen Yanez, da cui divorziò per sposarla successivamente, trasferendosi in Spagna.
Sepulveda, lo ripeto, è stato tante cose, soprattutto un uomo leale, testimone del suo tempo, che diceva di scrivere perché non sapeva fare altro e che si pose sempre dalla parte degli sconfitti perché, ripeteva “La storia è scritta dai vincitori“. Le sue opere hanno spesso la forma delle fiabe, perché in questo modo, attraverso una potente metafora che vede protagonisti gli animali, egli sapeva parlare di giustizia, di verità, di solidarietà tra gli uomini. Emblematiche sotto quest’aspetto sono “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare“, “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza“, “Storia di un topo e del gatto che diventò suo amico“, ma ricordiamo anche “Il potere dei sogni“, “Patagonia Express“, “Cronache dal cono Sud“.
Quando uno scrittore muore è come se si spegnesse la luce e ci ritrovassimo disorientati e soli. In queste occasioni si è soliti ripetere la celebre frase:”Restano le sue opere”. E’ vero. Ma non è la stessa cosa quando uno scrittore è testimone di un’epoca, protagonista della storia del suo Paese e Agit-Prop importante nelle vicende politiche del Cile. Mancherà la sua voce, la sua presenza, il suo corpo. Ci sono autori che amiamo senza averli letti ed altri che amiamo ancora di più perché letti, riletti e ammirati per la coerenza e il rigore intellettuale. Così è stato, per quanto mi riguarda, per Pier Paolo Pasolini, Zygmunt Bauman, Emanuele Severino. Mancano a me e al mondo che decodificavano e interpretavano con rigore logico e critica spietata.
“Sono morto più volte“, ripeteva Sepulveda ed elencava le sue “morti“. La prima quando il Cile fu stravolto dal colpo di Stato, la seconda quando venne arrestato, la terza quando ad essere imprigionata fu la moglie, la quarta quando fu privato del passaporto.
Per rinascere bisogna morire, per essere migliori bisogna oltrepassare l’inferno. Scrivere era il suo gesto liberatorio e di sfida, mancherà il desiderio suo di farlo ed il nostro di leggerlo. La vita va’ oltre la letteratura e Sepulveda lo dimostra.
Quando gli fu chiesto se avesse paura della morte, lui che era “morto” tante volte rispose:”Ci ho fatto l’abitudine. La vera saggezza è sapere quando le cose finiscono“. Ci mancherai, Luis.