
Se è vero che l’arte rende sopportabile la vita, intervistare un artista può indicarci come viverla: Adriano Falivene ha accettato di condurmi, attraverso la sua voce ed il suo racconto, lungo i sentieri della sua storia; un dialogo intervallato da un filo invisibile, eppure intriso dell’autenticità e della bellezza che soltanto un’anima delicata è capace di trasmettere.
Classe 1988, figlio di Partenope e dell’Accademia del Teatro Bellini, Adriano vanta all’attivo una carriera ricca di esperienze: funambolo, musicista, ballerino, cantante, umorista, clown, con la sua gestualità e mimica facciale riesce a mescolare le miriadi di inclinazioni che la creatività sa partorire. Un talento eclettico, dai primi passi mossi al Teatro Bellini sino a giungere alla ribalta internazionale con una piccola parte in “Trust” di Danny Boyle, divenendo oggi uno degli attori più acclamati della serie “Il Commissario Ricciardi”, trasposta in prima serata su Rai 1.
Il suo personaggio è Bambinella, il “Femminiello” napoletano confidente del brigadiere Maione (impersonato dal bravissimo Antonio Milo); un ruolo in cui Adriano è riuscito a calarsi alla perfezione, toccando il cuore degli italiani. “Fascino e riservatezza”, per citare la saggezza di Bambinella: ed è proprio con eleganza e discrezione che Adriano si accinge a rispondere alle mie domande, con due occhi timidi e quel velo di malinconia tipico dei grandi caratteristi della storia e degli esseri umani dotati di ipersensibilità.
Adriano, grazie per la tua disponibilità nel rilasciare quest’intervista.
“Grazie a te, Francesca”.
- Partiamo dalle origini: i greci chiamavano la virtù “ἀρετή” o “δαίμων”: qual è stato il tuo, il motore intrinseco che ti ha spinto a diventare ciò che sei? “Uno dei primi libri che ho letto, e che mi ha totalmente illuminato, “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand: quando lessi questo libro iniziò ad affascinarmi la capacità di alcuni esseri umani di dire “No”, di pronunciare una frase di estrema difficoltà rispetto all’assenso collettivo; a Napoli si dice “Con un no ti spicci e con un si ti impicci”, credo che molti uomini ottengano successo grazie a dei “Si” privi di meritocrazia. Il Cyrano non è stata l’unica lettura che mi ha aperto un mondo; da piccolissimo mio nonno mi regalò “Così parlò Bellavista”: in quel libro sono riportati sia fatti accaduti direttamente a Luciano De Crescenzo, che esperienze vissute da altri. E’ un pò il meccanismo che si instaura a teatro, in cui si è parte attiva e si ha la possibilità, tramite delle tele bianche, di divertire e di cambiare le persone; naturalmente, per attuare un cambiamento in se stessi o negli altri, occorre sempre una predisposizione inconscia o irrazionale, il δαίμων di cui parlavi tu all’inizio. Il mio demone è partito proprio dalla lettura di questi due testi”.
- Nel 2009 hai vinto il “Premio Charlot“, un chiaro omaggio al protagonista immaginario di una serie di film del cinema muto: quanto è stato gratificante ricevere un riconoscimento così prestigioso e soprattutto legato al nome di Charlie Chaplin, al quale tu stesso ti ispiri? “Avevo diciannove anni quando ritirai questo premio, e mi scende quasi una lacrima nel ricordare l’Anfiteatro di Paestum con 5000 persone; inoltre è stato un percorso intrapreso con degli amici veri, al di là che colleghi. Il nostro trio giocava sull’incomunicabilità degli esseri umani, sulla difficoltà di capirsi fino in fondo, partendo da uno spunto di Pirandello che nei “Sei personaggi in cerca d’autore” dice che “Ognuno di noi ha dentro un mondo di cose ed è impossibile perché ciò che uno dice l’altro l’ascolta secondo il suo mondo di cose”; e ciò diventa tragicomico nell’atto pratico, perché questi tre personaggi che vagavano nel nulla, questi tre clown neri semplicemente tentavano di intavolare una conversazione alta senza però capirsi, pertanto nell’arco di cinque battute si tramutavano in personaggi diversi: per intenderci, si passava dalla scena di un delitto ai tre moschettieri. Ed era tutto sul male che c’è nelle parole. La maggiore difficoltà fu che ciò che facevamo in teatro veniva definito “Kabaret”, invece per i laboratori era ritenuto troppo teatrale, e noi abbiamo finito col sentirci sempre non a casa, malgrado la risonanza del pubblico fosse infinita. E sconfinata è stata anche la gratificazione che ho provato, sentendo quel demone dentro che sorprende anche noi stessi, pensiamo a Karl Valentin nel teatro dell’obbligo”.
- I tuoi esordi sulla scena risalgono alla tua seconda famiglia, l’Accademia del Teatro Bellini; io stessa ho avuto il privilegio di vederti ben due volte in “Granvarietà” per la regia di Gabriele Russo, in cui interpretavi Gnegno, ed in “Dignità Autonome di Prostituzione” diretto da Luciano Melchionna, ed in entrambe le rappresentazioni sono emerse le tue camaleontiche doti di trampoliere, equilibrista, giocoliere… Che differenze e/o analogie hai trovato, a livello di cameratismo, tra questo ambiente e le altre realtà di cui hai fatto parte? “In Accademia l’errore è un palese arricchimento, sia che esso non si debba ripetere sia che si debba farne tesoro, estrapolandone l’umanità, e rendendolo teatrale in maniera canonica; la differenza con le Compagnie Teatrali consiste nel fatto che quell’errore non può essere commesso e, anche qualora accedesse in scena esiste una correzione non estemporanea che viene fatta in seguito. In Teatro vige la bolla della diversità intesa come arricchimento, difatti il criterio di Luciano Melchionna in “Dignità autonome di prostituzione” era proprio quello di scegliere in base alla “Diversità”: al di là della bravura artistica la decisione verteva sull’umanità dell’attore. Inoltre il senso di “Famiglia” inteso come un gruppo di persone che attraverso il bene dello spettacolo esternano il bene alla collettività, arricchisce continuamente: l’obiettivo comune è nobile, ed è questo il filo conduttore che dovrebbe congiungere altri ambienti, in cui purtroppo si preferisce tirare acqua al proprio mulino piuttosto che attuare una competizione sana. Mi ritengo un privilegiato, perché ho sempre trovato compagni di lavoro molto generosi, e quando penso che qualcuno sia entrato in competizione con me mi viene da sorridere; basti ricordare Charlie Chaplin e Buster Keaton che in “Luci della ribalta” chiudono il film insieme, con l’armonia del piano e del violino: lì ci si rende conto di quanto sia meraviglioso essere sulla stessa lunghezza d’onda!”

- La tua scelta di vita, quella di essere artista e giramondo, è stata accolta bene dalla tua famiglia o hai avuto ostacoli per affermarla? “Sono stato fortunato ad essere, e lo sono ancora, molto libero, malgrado la professione che svolgo non dia certezze a lungo termine; probabilmente se non avessi fatto l’attore mi sarei dedicato all’arte figurativa, diventando scultore. Mia madre, con il suo coraggio ed il suo ardore, è stato l’esempio più sincero di persona felice nel vedere gli altri (in questo caso me) felici per quello che vogliono essere. Grazie a lei ho capito perfettamente cosa significa ricevere un appoggio costante”.
- Il clown sappiamo che tenta di divertire il pubblico celando la sua malinconia, personaggio peraltro ricorrente nelle tue interpretazioni: quanto c’è di te stesso in questa maschera? “Il clown identifica una creatura del cielo, e con la sua forza contribuisce a regalare gioia a tutti coloro con cui si relaziona; io vorrei qualcuno su cui poter contare, una persona che mi facesse provare l’ebbrezza di trovarmi dalla parte opposta, quella di ricevere sorrisi piuttosto che donarne. Un gesto che spesso riesce a compiere un animale, o un bambino piccolo; mio nipote in certi momenti è un clown eccezionale, perché guarda il mondo con il disincanto e l’ingenuità tipici di chi non si rende conto di ciò che lo circonda. E’ di certo un rischio mettersi in gioco senza filtri”.
- Qual è la rappresentazione e il personaggio che ti sono rimasti maggiormente nel cuore, e perché? “Mi viene in mente Mercutio di “Romeo e Giulietta”: con Carmen Pommella abbiamo iniziato con dei matinée, proseguendo poi con degli spettacoli serali, dal 2009 fino a poco prima del Covid; in un momento così drammatico a livello sociale la bestemmia che grida Mercutio “La peste alle vostre famiglie” appare oltremodo profetica. E’ come se oggi anche quella bestemmia fosse strumentalizzata da chi doveva subirla principalmente, perché constato con rabbia che si arricchisce chi era già ricco di base, come se ci fossero interessi celati dietro questa “Peste”. In tempi non sospetti, quasi lo avessi percepito dentro di me, siamo riusciti a debuttare a febbraio proprio con la compagnia di Carmen Pommella, la quale dandomi fiducia mi ha concesso di essere alla regia del “Cyrano de Bergerac”, opera strutturata interamente in napoletano, ed è stata l’ultima cosa che ho fatto prima di questa tragedia. Ma a mancarmi come l’aria è Gnegno, l’energia che quel personaggio scatena in me, perché mi impone di stare su un altro pianeta: ricordo sempre che al termine degli spettacoli in cui lo portavo in scena ero tanto esausto quanto felice, come se mi lasciassi penetrare da un demone!
- Il teatro è stato per anni l’unico perno per intrattenere il pubblico o lanciare messaggi, raccontare storie o leggende. Nella Grecia antica il teatro aveva un’importanza grandissima, pensiamo alla tragedia o alle Dionisie, dedicate a Dioniso: in questo periodo non solo di forti restrizioni dovute a motivi contingenti come il Covid, ma anche caratterizzate dall’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione, il teatro ha ancora una valenza? “La cosa assurda è che durante la peste alcuni teatri di contrabbando operavano, invece questa tecnologia impone una visione che non si riconosce del teatro; un tempo le condizioni igieniche erano precarie, la gente moriva per strada, eppure c’erano sempre questi piccoli luoghi in cui le persone che si sentivano bene andavano; sono preoccupato e altrettanto consapevole che questa situazione non potrà durare in eterno, altrimenti diventiamo davvero black mirror, con chi riscuote più like e follower. E’ proprio l’idea di vibrare in maniera vivisezionata, lo stesso spettacolo attraverso la tecnologia arriva in modo diverso, specialmente per il non poter essere insieme; e la rabbia maggiore è constatare che in televisione esistono i privilegiati, per fama, a dispetto dei teatranti”.
- Trovi che un artista sia un privilegiato per il lavoro che svolge, e per la creatività che lo sottende, o che essere ogni sera in scena davanti ad un pubblico comporti più fatica e stress mentale di altre attività? “E’ sicuramente un privilegio, e adesso lo si percepisce ancor di più; a me è capitato, per fortuna, di ripetere per 230 volte “Filumena Marturano, percorrendo 230 volte strade diverse dettate dal pubblico lì presente, perché nel momento in cui vivi quella cosa il pubblico reagisce in maniera differente, è inevitabile: dalla prima battuta di Nunzia Schiano si sentivano le risate della platea, si tarava da quella prima reazione chi si aveva di fronte, nel senso non di giudizio ma di compagno. Perfino un silenzio assordante può emozionare tantissimo! Recitare significa essere libero, ed è ciò che al momento mi manca di più, la possibilità di cambiamento attraverso un arricchimento continuo.
- “I sogni muoiono all’alba“, ha detto qualcuno. Io credo però che alcuni sopravvivano alla luce e ci accompagnino ancora. Qual è il sogno irrealizzato di Adriano Falivene? “Sto riflettendo molto sui sogni, in questo periodo: nel momento in cui si pensa al sogno lo si pensa come qualcosa di irraggiungibile, e invece il passaggio necessario è attraversare l’ambizione; ciò che attualmente concepisco come sogno e che non riesco a trasformare in ambizione è realizzare io dei film, narrare delle storie secondo le mie perplessità e i miei dubbi, ciò che mi risuona dentro al di là del ruolo di attore. E’ ciò che ho provato a fare mettendo in scena “Cyrano” da regista e trasportandolo a Napoli; non voglio però giungere alla ribalta con un ruolo “Ricattabile”, preferirei piuttosto farcela con lo spirito del “No, grazie” tipico di Cyrano. Farcela da solo, senza le dinamiche dei film, tanto intricate quanto enigmatiche; chissà se resterà solo un sogno, magari daranno anche a me una botta in testa come Cyrano!”.
- Arriviamo al Commissario Ricciardi: Bambinella è una creatura dalla disarmante sensibilità, con irrazionale bisogno di amare e di essere amata: per interpretarla ti sei trasformato completamente in un individuo complesso ed umanissimo, un “Diverso“, riuscendo a farlo apparire mai macchiettistico e folkloristico; quale tecnica hai usato? Per caso quella dell’Actors Studio, consistente non nel rappresentare un personaggio ma nel diventare quel personaggio? “Ho utilizzato tutte le armi che avevo a disposizione, e la ricerca non è terminata perché ci sono ancora tante cose da raccontare di Bambinella; innanzitutto, come dici tu, il metodo americano è qualcosa che si avvicina (metodo americano in realtà partito da noi italiani, messo su carta da Strasberg), come se per interpretare Bambinella si fosse preso un “Femminiello” vero. La grande opportunità che mi ha dato Alessandro d’Alatri è partita proprio da un’analogia, dal fatto che mi avesse visto in “Dignità autonome di prostituzione” struccarmi da clown e togliermi la maschera di Gnegno raccontando quello che sono; Alessandro mi ha raccontato che per lui Bambinella era questo, ogni volta nei romanzi di De Giovanni lui aveva la sensazione di vedere addirittura un clown, ed alla fine l’ha visto davvero! Ed è ciò che fa Bambinella con Maione; forse Bambinella risulterebbe caratteristica con tutti gli altri, ma quando arriva Maione c’è qualcosa di speciale, che non è solamente la gratitudine per averla liberata, quanto la possibilità di sentirsi parte di quel gruppo di persone che hanno un obiettivo comune. Ecco l’analogia con il teatro, con il clown! Restando sul metodo, avevo già una volta interpretato un personaggio omosessuale, rinchiuso in un lager ma ritenuto ancora più diverso dagli altri; si trattava di un “Lui”, invece in Bambinella c’è tutta la maternità di una donna, la capacità di comprendere oltre rispetto a quello che un uomo può percepire. Non so dirti neanche io come sono arrivato, fino in fondo, ad una tale interpretazione di Bambinella, probabilmente ispirandomi alle donne che ho ritenuto importanti nella mia vita, non imitandole bensì lasciando risonare in me quello che mi aveva ispirato quest’altro lato della creazione. De Giovanni mi ha dato la possibilità di palesarmi davanti un fantasma, già quando si leggevano le prime parole di Maione che comincia ad andare da Bambinella il lettore avvertiva la sensazione che si andasse da qualcuno di “Esoterico”, un personaggio mistico; e da lettore avevo il terrore di non dover deludere l’aspettativa. Ho provato ad essere anche io lì quando Maurizio De Giovanni ha incontrato Maione e Bambinella, in un certo senso li ho “spiati”, fino ad arrivare ad un vero e proprio corteggiamento.

- La figura del diverso, del “Femminello” napoletano è trasversale, non riguarda solo Napoli, però ritengo che Napoli integri e accetti maggiormente la diversità, anche sessuale. Che ne pensi? “Credo che Napoli sia una città che in qualche modo, pur avendo una coscienza collettiva molto forte (basti pensare che a Piazza del Plebiscito abbiamo sette statue di sette sovrani stranieri), vede il bene reagire al male in maniera passiva: nella comprensione della diversità vi è una forte accettazione, sebbene il lato marcio esista. La differenza con il resto del mondo sta nel fatto che la parte malata a Napoli è sempre stata condannata! A Napoli esiste un’etica che viene rispettata anche da chi è malvagio; in questo caso, nell’assurdità del male esiste questa differenza, quantomeno si prova ad avere tolleranza rispetto alla diversità: a Napoli non verrebbe mai giudicato male fare un murales ad un femminello, cosa che magari in altre culture sarebbe stato un atto sbagliato; per noi, da sempre, da quando siamo Neapolis, fare una statua o un murales ad un femminello non è spregevole, piuttosto è spregevole imbrattarlo. E non mi sovviene nessun’altra cultura in cui viga questo tipo di etica. Stesso discorso dicasi per la pedofilia: i bambini per un camorrista sono sacri, a differenza di quanto avverrebbe per un mafioso, che sarebbe disposto a sciogliere nell’acido un bimbo di tre anni, se fosse figlio di Falcone”.
- Il ricordo più bello legato al set del Commissario Ricciardi? “I giorni in cui mi recavo sul set, in cui arrivavo così come mi vedi, o con un baffo oppure più simile a Gnegno, e nessuno mi riconosceva; dicevano che non potevo stare lì, poi ricordavo agli operatori di scena che dovevo recarmi al trucco, essendo io l’interprete di Bambinella. E quando avveniva la trasformazione, tutte le persone intorno a me, come avveniva con Gnegno, si rapportavano a me immaginando che io interagissi con loro nel ruolo del personaggio che interpretavo. Io non sono uno di quegli attori che se esce per strada viene riconosciuto; anche da Gnegno, se non fosse stato per qualche volta in cui avevo macchie bianche sul volto, nessuno avrebbe capito che eravamo la stessa persona. L’esperienza bella è quando riconoscono Bambinella, essere riuscito a dare vita a qualcosa che conduce me e conduco io insieme. Sono momenti in cui ci si sente meno soli”.
- A chi hai comunicato per primo di aver ottenuto la parte di Bambinella? “A mio zio; è stato un grande maestro per me, oltre ad avermi guidato nella crescita”.
- Tanti anni di teatro non ti hanno dato la stessa notorietà ottenuta con “Il Commissario Ricciardi”. Credi che nel bene o nel male la TV offra maggiore clamore rispetto al teatro? “Io ho sempre pensato che il teatro sia l’unica forma meritocratica, perché le persone quando vengono a vederti a teatro non possono essere condizionate. Educare il pubblico attraverso la TV, in maniera sbagliata, ha avuto una forte ripercussione sui teatri, in cui si era già andata perdendo la meritocrazia, basti pensare alla nascita dei fenomeni cosiddetti “Trash”: se uno di loro avesse organizzato delle tournée teatrali, quasi sicuramente, avrebbe avuto più successo di una compagnia di attori. Ciò deriva anche da una mancanza di compagnia, la “Compagnia del nome” più che un vero e proprio livello di quella compagnia; è giusto che il nome si crei, ma secondo dinamiche meritocratiche. In questo “Il Commissario Ricciardi” è stata una rivincita, perché ha dato vita ad un numero di lettori che hanno acquisito un determinato bagaglio, malgrado non ci fosse un budget di partenza al pari della volgarità televisiva. Sarebbe stupendo se si tornasse ad avere il contrario, che chi in teatro non ha una valenza arrivasse in TV ad avere canali, ma adesso la vedo davvero molto dura. Perfino Troisi oggi avrebbe difficoltà ad esprimersi!
- A tuo avviso, in un’epoca di estrema razionalità come quella attuale trova ancora spazio ciò che è irrazionale, come per gli antichi giullari o, per dirla alla Don Chisciotte, per “Vivere la vita come in un sogno? “Credo che questa possibilità ci sarà sempre per gli esseri umani, però diventa sempre più alto il compromesso: se questa gabbia in cui ognuno di noi vive, così comoda e così pulita, così confortevole, non viene abbandonata, non si potrà mai scegliere la strada del sogno; e fare la scelta di vivere quel sogno dovrebbe precludere qualsiasi tipo di dinamica volta alla disumanizzazione. Sicuramente sarà sempre più difficile trovare altre persone che siano disposte a “Vivere in un sogno”, perché quest’ultimo ha difficoltà che vanno sempre più incanalate in questa direzione. Ti racconto un aneddoto: quando eravamo in zona gialla e la Puglia era in zona rossa, avevo deciso di acquistare un camper con i soldi ricavati al semaforo al termine della giornata in cui, vestito da clown, cercavo di regalare un sorriso alle persone, perché in loro vedevo una tristezza angosciante; il fatto che si emozionassero alimentava ancor più il mio ardore, di certo non per soldi. Difatti, con i guadagni, avrei acquistato un camper per continuare a donare emozioni agli altri.
- Hai già detto in altre interviste che i tuoi riferimenti artistici sono stati, tra gli altri, Troisi ed Eduardo. Cosa resta di loro e della loro arte, al netto del fatto che rimangono immortali? Un elenco di capolavori teatrali e cinematografici, una mimica sopraffina e immutabile, un’umanità struggente e malinconica, o anche un esempio, un invito a seguirli su una strada lastricata di difficoltà, un aprire porte perché ci passino altri? Insomma sono maestri irraggiungibili o hanno discepoli? Io penso che il primo valentissimo discepolo sei tu. Ma il mio giudizio non vale, sono l’intervistatrice. “Credo che la cosa più grande che hanno lasciato è il vuoto: oggi di chi si può dire questo? Troisi diceva che un Maestro è quello da cui “Guardi e impari”; io vorrei essere tantissimo un loro discepolo, ma soprattutto vorrei essere un discepolo dei loro discepoli. Purtroppo esiste questo gap, ad oggi io dovrei avere già un altro discepolo da seguire, invece mancano maestri del genere; io ho trovato in Alessandro D’Alatri questo tipo di luce, pur non essendo lui napoletano. I maestri che ho incontrato in teatro avrebbero dovuto ottenere maggiore fama, la possibilità di fare i film, eppure non l’hanno ottenuta, ed è questa la mia rabbia. Un tempo si diceva “Chi non sa fare insegna”, oggi è l’esatto contrario”: Alvaro Piccardi, ad esempio, che ha diretto tutta la tragedia greca di Vittorio Gassmann, è sconosciuto ai più!”
- Appari, e credo a ragione, persona schiva e modesta: come vivi allora questo momento di grossa celebrità e affermazione, di “Riconoscibilità” forse mai immaginato prima del Commissario Ricciardi? “Ancora più inaspettato è il modo in cui bisogna rispondere a questa notorietà: per strada, per quel poco che si esce, non è qualcosa di così eclatante, è Bambinella ad essere famosa, io sono totalmente diverso da lei, almeno esteriormente. E’ qualcosa che sicuramente fà piacere, vedo che molte persone hanno avuto modo di ricevere qualcosa di bello, ed in questo momento è ancor più gratificante ricevere un affetto reale e disinteressato; l’idea di poter essere d’aiuto è la più bella cosa che possa augurare a chiunque. Sono certo che in alcuni momenti della vita piuttosto bui ci si possa affezionare a qualcosa che esiste perché le persone ci credono. Sto vivendo questo momento di notorietà come l’unico lampo di luce nell’oscurità, io che mi sono sempre sentito vivo in teatro o quando mi muovevo per arricchire la ricerca in svariate direzioni; ora, non potendolo fare, sento che mi tiene in vita Bambinella grazie alle emozioni di cui si è nutrito il pubblico”.
- Nel suo capolavoro “Lo straniero“, Camus ci parla dell’assurdità del vivere e di come si possa essere estranei a se stessi ed al mondo. Adriano Falivene si sente “Extraneo” in questa società o integrato nei suoi meccanismi? “Sempre più estraneo. Non conosco purtroppo il romanzo che hai citato, ma senz’altro lo leggerò; piuttosto mi hai fatto venire in mente “Il barone rampante” che desidera andare a vivere su un albero. Questo senso di estraneità lo provo ultimamente tanto, prima mi sentivo utile, invece adesso provo una forte alienazione, dettata anche dal non poter incontrare ragazzi a cui facevo lezione; abbiamo questa tecnologia che ci dà la possibilità di accorciare le distanze, eppure io sono solo qui, non so se tu sei sola lì… Siamo vittime di una società sempre più liquida e disumana”.
- Cosa rappresenta Napoli, la tua città, come uomo e come artista? Il suo vivere anarchico e fuori da ogni canone è qualcosa che un napoletano si porta dentro per sempre? Se è così è una croce o una delizia? “Sotto certi aspetti Napoli, con la sua arte dell’arrangiarsi, con il suo farsi scivolare le cose addosso, eludendo dinamiche assurde per una cerchia ristretta di persone, rasenta un pò l’egoismo, e dunque somiglia ad una croce più che una delizia”.
- Che rapporto ha Adriano con il cinema? Hai mai accarezzato l’idea di lavorare all’estero? “Si, tante volte ho accarezzato quest’idea, sarebbe un sogno! Sono arrivato in Argentina, con “Filumena Marturano”, poiché abbiamo percorso gli stessi teatri percorsi da Eduardo, con “Granvarietà” siamo stati in Spagna; andrei volentieri a lavorare all’estero, dove si ha la possibilità di eludere alcune dinamiche presenti in Italia. Purtroppo in un periodo così difficile è ancora più arduo spostarsi; chissà se resterà un’utopia oppure sarà possibile tramutarla in realtà”.
- Schopenhauer diceva che dal punto di vista delle rappresentazioni non c’è differenza tra la realtà ed il sogno. Trovi che questo possa essere vero soprattutto per l’arte e la rappresentazione teatrale: vivere in un sogno e sognare vivendo? “Nella rappresentazione teatrale manca tutta la noia della vita, quei momenti in cui si ha la sensazione di essere persi; Eduardo riteneva che “La vita copia il teatro”, in teatro è rappresentato il canone ideale dell’immaginario collettivo. Nella vita invece esiste questa difficoltà, che molto tempo sia passato interrogandosi sul senso, mentre nella rappresentazione tutto ha un senso; se non lo ha, è un errore. Ed anche un errore viene intriso del suo lirismo, della sua importanza“.
- Borges diceva: “Ho una sola paura, quella di non morire“: quali sono, oggi, le paure e le angosce di Adriano Falivene? “Una delle mie più grandi paure è morire senza lasciare un segno, senza trasmettere la mia scintilla di eternità ad un figlio, in una società sempre meno incline agli abbracci, agli scambi reciproci di sguardi, emozioni, rapporti basati su parole pronunciate anziché scritte; io per primo credo cecamente negli abbracci prima che nelle parole. Infine, la paura che nessuno abbia mai il coraggio di dire le cose, pur sapendole. Noi stiamo andando in quella direzione, nessuno ha il coraggio di denunciare il marcio che c’è in Danimarca”.
- L’ultimo album di Claudio Baglioni “In questa storia che è la mia” (peraltro stupendo) racconta la parabola dell’amore, dall’inizio al suo tramonto quasi inevitabile, e all’amarezza e ai rimpianti che accompagnano questo declino: Adriano crede nell’amore anche se viviamo in un’epoca difficile, e crede che possa durare per sempre? “Assolutamente si. E’ quello di cui si sente la mancanza, anche l’idea di non poter incontrare una donna o un uomo che suscitano in te determinati sentimenti; la disumanizzazione reale avverrà solo quando ci saranno generazioni abituate a non ricercare l’amore, ma è impossibile, perché l’amore è un meccanismo imprescindibile dall’essere umano. Una delle più belle canzoni di Baglioni dice che “E’ meglio amare e perdere che vincere e non amare mai”.
Ci salutiamo, con l’augurio che il merito continui a trionfare sugli orrori del mondo, e con la promessa di ritrovarci in una futura intervista senza la barriera divisoria dei mezzi tecnologici di una società sempre più liquida e meno umana.
Che profondità di pensiero! Io e lui ci capiamo.