Quando il nonno cambiava canale la nonna sperava sempre che alla fine del giro avrebbe spento. Solo quando su uno dei pochi canali della tv del tempo compariva la sagoma inconfondibile del gigante buono, la nonna esclamava: “Lassa qua lassa qua! Virimmo como mena palate…” E sorrideva, e rideva, la nonna, quando il gigante buono menava sganassoni rumorosi al presuntuoso malcapitato di turno. “E como nce dà ‘e santa ragione!” commentava divertita e soddisfatta la nonna, cercando con uno sguardo improvvisamente infantile il nostro consenso. Anche il nonno si divertiva, lui però alla fine della scazzottata si alzava e andava a far altro. La nonna invece si appassionava al film e lo guardava fino alla fine; lei che non sopportava la tv, un apparecchio che la infastidiva, che “fa sulo cazzi muorti”, ed era la tv di fine anni ’80, figuriamoci cosa direbbe nonna della tv di oggi. Mia nonna prestava attenzione alla tv, che il nonno teneva accesa molte ore al giorno anche dedicandosi ad altre faccende, solo quando nel video si stagliavano due barbe, quella di Guido Caroselli o quella di Bud Spencer. Per la nonna Guido Caroselli era sempre e comunque “Bernacca”, anche quando Edmondo Bernacca era andato in pensione da qualche anno. Bud Spencer era “But Panzer”, forse in reminiscenza e retaggio dell’occupazione tedesca che la nonna aveva realmente vissuto. Guido Caroselli era una barba curata, elegante e gentile. Bud Spencer era una barba incolta, trasandata e buzzurra. Eppure entrambe attiravano irresistibilmente la nonna. Su Guido Caroselli in fin dei conti la spiegazione non era difficile, era il conduttore delle previsioni del tempo in un tempo in cui l’unico modo per sapere in anticipo l’umore del clima del giorno appresso era ascoltare lui, e Bernacca e Baroni antecedentemente a lui. Su But Panzer invece mi sono sempre arrovellato il cervello nel tentativo di capire il motivo per cui piaceva tanto alla nonna; forse perché era il prototipo dell’educazione comportamentista che i nostri nonni praticavano senza saperlo (o forse lo sapevano benissimo), forse perché le piaceva quell’aria perennemente sfottuta che improvvisamente si risvegliava a suon di cazzotti, forse perché vedeva in But Panzer una comicità fisica, muta, di sagoma e di azione, come quella dei primordi del cinema che la nonna aveva (realmente) visto. Su una cosa però ero sicuro già allora, che avevo dieci anni: Bud Spencer era l’unico attore della tv (in realtà era attore di cinema, ma io lo vedevo in tv…) che mi consentiva di avere voce in capitolo sulla scelta del canale della sera senza provocare la facile ira degli adulti. Anzi, durante le cene a casa dei nonni il sabato sera, quando la famiglia era presente al gran completo e anche in versione allargata fino a superare la ventina di “mangiatori da bivacco” (così li definiva il nonno, salvo offendersi a morte se qualcuno non era presente), io e la nonna avevamo modo di coalizzarci quando la tv di Berlusconi, per reggere la concorrenza dello show RAI del tempo, il tremendo “Fantastico”, trasmetteva i film di Bud Spencer e Terence Hill. I fatti si svolgevano più o meno così. Verso le otto e quaranta, prima di iniziare la cena, tutti gli occhi erano sulla tv e su Pippo Baudo che presentava l’ennesima sfilata di ospiti prima di far andare il primo, insopportabile balletto della serata. Nel frattempo veniva servito il piatto e già l’attenzione generale verso Baudo e le cosce delle ballerine scemava sensibilmente. Nella pausa fra il primo e il secondo piatto, più o meno verso le nove, già l’argomento principale dei mangiatori da bivacco era diventata la politica e, visto che a tavola erano proporzionalmente rappresentate tutte le forze politiche del tempo e visto che il vino rosso già produceva i suoi soliti effetti, i toni di voce si alzavano e le aorte si ispessivano. Era quello il momento: la nonna, che misteriosamente sapeva del film sull’altra rete, mi faceva inequivocabili segni con gli occhi e con la mano di cambiare canale, tanto nel casino generale nessuno ci avrebbe fatto caso. Io allora mi avvicinavo quasi di soppiatto alla pesante Telefunken retta da un instabile carrello e svolgevo l’opera di sabotaggio contro Pippo Baudo e a favore del cinema italiano. Qualche resistenza la opponevano le solite cuginette, che la nonna prontamente intercettava con l’offerta di un pezzo di dolce in anteprima. Corrotte le nipotine e intimando alle figlie nonché (indirettamente) alle nuore di non starsene con le mani in mano (usando però un’espressione decisamente più colorita), la nonna si creava un rassicurante intervallo di tempo per godere il suo unico divertimento catodico. Io mi sedevo a terra a un metro dalla televisione, la nonna rimaneva sulla sua sedia preferita a ragguardevole distanza dal video, tanto a lei bastava vedere i cazzotti, che poi di quella tribuna politica rumorosa e appassionata in cui ormai si era trasformata la sua spaziosa sala da pranzo, facevano da opportuna colonna sonora. La vocazione governativa della DC, la tracotanza di Craxi, il pentapartito e la crisi della sinistra (ma da quanto tempo dura, la crisi della sinistra?!) erano per me litanie familiari. Gli sbuffi di Bud Spencer, i suoi pugni in testa all’avversario provocatore, l’eleganza guascona di Terence Hill lo sarebbero diventati di lì a poco. Fu così che vidi per la prima volta, grazie alla nonna, almeno tre film con Bud Spencer e Terence Hill: “Altrimenti ci arrabbiamo”, “Io sto con gli ippopotami”, “Chi trova un amico trova un tesoro”. Quante volte li ho rivisti, insieme a tutti gli altri, non lo so.
Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, era nato a Napoli, nel rione Santa Lucia, nel 1929. Di madre bresciana e di padre napoletano, ha sempre detto di sentirsi napoletano, benché a undici anni si fosse trasferito a Roma e a Napoli non sarebbe più tornato. Di famiglia benestante, ha avuto una vita avventurosa, fatta di lavori disparati e di frequenti trasferimenti, prima di diventare una star del cinema. Sportivo di alto livello, è stato campione italiano di nuoto, “a rana” e “in stile libero”. Nei cento metri dello stile libero è stato il primo italiano a scendere sotto la soglia del minuto. Ha partecipato a due Olimpiadi, Helsinki 1952 e Melbourne 1956, come nuotatore e come pallanotista (con la nazionale italiana di pallanuoto è stato medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo 1955).
La carriera di attore cinematografico inizia proprio in virtù delle sue imponenti caratteristiche fisiche, Carlo è bello e con un corpo scultoreo. L’esordio è una parte di contorno nell’hollywoodiano Quo vadis? del 1951. Ancora tre film “importanti”, Siluri umani di Antonio Leonviola, Un eroe dei nostri tempi di Mario Monicelli e Annibale di Carlo Ludovico Bragaglia, prima della decisione di lasciare Roma e l’Italia in cerca di nuovi mondi e avventure. Il trentenne Carlo, piuttosto ricco, piuttosto famoso, piuttosto irrequieto, non sopporta più di essere un pariolino annoiato e di vivere come un pariolino annoiato. Se ne va in Sud America, terra che già aveva conosciuto dieci anni prima al seguito del padre (un uomo d’affari) e alla quale rimarrà sempre legato. Questa volta è solo però, e contro la volontà della famiglia sceglie il Venezuela, all’epoca Paese mitico proprio perché sconosciuto. In realtà papà Alessandro non lo perde di vista, e lo raccomanda ad un’impresa che sta costruendo la grande strada Panamericana fra il Venezuela e la Colombia, e l’impresa effettivamente lo assume. Quindi Carlo, per sottrarsi al controllo a distanza di papà Alessandro, passa all’Alfa Romeo di Caracas, con cui inoltre partecipa come pilota a diverse corse locali. Riprende anche a nuotare, entrando nella squadra venezuelana di nuoto con cui gareggia in competizioni nazionali e internazionali. Dopo poco più di un anno in Venezuela, Carlo, forse stanco di lavorare, torna a Roma, dove ancora l’attende una fidanzata, Maria, figlia (ricca) del produttore cinematografico Peppino Amato. Per metter su famiglia Carlo deve pur trovare un’occupazione, e così rivela al suocero di non essere interessato al cinema ma di voler scrivere canzoni. L’etichetta musicale RCA subito gli fa firmare un contratto, e Carlo scrive qualche testo e qualche colonna sonora. Intanto sposa Maria Amato, fa due figli, ma nel 1964 Peppino Amato muore. Tentata senza molta fortuna l’attività di produttore di documentari per la RAI TV, a Carlo non resta che ripiegare sul cinema…
La storia di Carlo Pedersoli, a ben riflettere, è la storia di un giovane di ottima famiglia degli anni ’50. In quegli anni di dopoguerra solo i ricchi virgulti d’élite si dedicano a sport diversi dal calcio e dal ciclismo, solo i giovani che possono permetterselo si annoiano della loro vita agiata e decidono d’improvviso di andarsene a conoscere il mondo. Per poi tornare a casa, quando l’ansia di conoscenza e di avventura è stata appagata, e magari provata la fatica del lavoro manuale, e a casa trovare la sicurezza di un buon impiego da qualche parte. Comunque, fin quando ha voluto o potuto, Carlo Pedersoli è stato (senza saperlo) una sorta di “beat” italiano (l’epoca quella era), un giovane ribelle e nomade, attratto dal bizzarro Sudamerica, in protesta contro il mondo ovattato, bacchettone e perbene in cui era nato e cresciuto. Forse senza coltivare gli eccessi di alcol e droga dei beat americani, ma di questo neanche si può esser sicuri…In età già avanzata, Bud Spencer si è invece dichiarato politicamente di destra, fino a candidarsi con Forza Italia alle elezioni regionali del Lazio nel 2005.
Anche sulla scorta della vita del giovane Carlo Pedersoli, risulta evidente altresì invidiosamente urticante per noi precari del ventunesimo secolo, la facilità con cui negli anni ’50 e soprattutto nei ‘60 era possibile in Italia “riuscire” nella vita. Erano gli anni del “boom” e delle opportunità, della situazione eccellente sotto il cielo, gli anni dello Stato facilitatore dell’economia pubblica e privata, non vincolato né azzerato dalla finanza. Eri un bravo nuotatore grande e grosso? Bene, il cinema, l’arte più popolare e aperta a tutti, ti aspettava, e chissenefrega(va) se non avevi studiato recitazione. E se preferivi la canzone al cinema, sempre si vedeva quello che si poteva fare. Avevi un diploma di scuola superiore? Un impiego di concetto in un ministero era possibilissimo, in una ditta privata era certo. Con una laurea poi…Ti piaceva scrivere e volevi fare il giornalista? Un giornale, un giornale che ti assumesse, non era difficile trovarlo. E se pure ti piaceva l’avventura e spostarti di continuo, un degno lavoro da operaio lo potevi trovare, a Roma come a Milano come in Sud America. Oggi neanche ai “figli di papà” (perché Carlo Pedersoli era un figlio di papà) è offerta questa varietà di scelta se non, ovviamente, ai figli di papà clamorosi…
Se Peppino Amato, il suocero ricco, introdotto nel bel mondo e mantenente la famiglia non fosse morto non vecchio, probabilmente Carlo Pedersoli non avrebbe mai avuto la necessità di essere Bud Spencer, con conseguente inconsapevole danno per se stesso e per il cinema italiano.
Il regista Giuseppe Colizzi, nipote di Luigi Zampa, offre (o è costretto ad offrire) a Carlo Pedersoli un ben remunerato ruolo da protagonista nel western Dio perdona…io no!. Sul set del film Carlo fa la conoscenza di Mario Girotti, l’altro protagonista del film. Il regista, che dopo poche scene girate già capisce di aver trovato una miniera d’oro in quella coppia così diversa, così oppostamente attrattiva, impone ai due di cambiarsi i nomi, di americanizzarli, per risultare più di impatto sul pubblico italiano e più credibili per commerciare il film all’estero. Carlo Pedersoli cambia identità in Bud Spencer (in omaggio, spiegherà, all’attore Spencer Tracy e alla birra americana Budweiser), Mario Girotti cambia identità in Terence Hill. Nasce così la coppia più spassosa e meglio assortita dello “spaghetti western”. Dio perdona tira bene al botteghino, tanto da indurre il regista a girare a brevissima distanza altri due film (I quattro dell’ave Maria e La collina degli stivali) con la stessa coppia di attori, in modo da completare la trilogia allora molto di moda.
Bud Spencer e Terence Hill gireranno insieme diciassette film, di cui sedici come coppia protagonista, dapprima western all’italiana (oltre alla trilogia di Colizzi, i due memorabili “Trinità” con la regia di Enzo Barboni alias E.B. Clucher) e poi commedie d’azione. Tutti godibili e divertenti, qualcuno sicuramente immortale, tutti mietitori di incassi favolosi, soprattutto in Italia, Stati Uniti e Germania Ovest. Un diciottesimo film, nove anni dopo il diciassettesimo, sarà una forzatura e un insuccesso, ma senza far testo. L’unico premio di rilievo che la coppia riceverà sarà “alla carriera”, un riparatore David di Donatello nell’anno 2010.
Senza il compare Terence Hill, Bud Spencer ha girato altri film, una trentina, perlopiù western e commedie, alcuni riusciti altri meno. Ma anche un thriller (4 mosche di velluto grigio, di Dario Argento), un poliziesco di denuncia (Torino nera, di Carlo Lizzani), uno storico/grottesco (Il soldato di ventura, di Pasquale Festa Campanile), un fantastico/artistico (Cantando dietro i paraventi, di Ermanno Olmi), un noir (Al limite, dello spagnolo Eduardo Campoy). Ha recitato in napoletano (che considerava la sua prima lingua, e ne conosceva sei), con la sua vera voce, nei quattro film dello sbirro “Piedone”.
Un minuto dopo la sua morte, sul web è iniziata la gara a ricordare i dialoghi e le battute dei film più famosi. Io ne ho indelebilmente impresse nella capoccia almeno cinque, tre da “Trinità” e due da “I superpiedi quasi piatti”. La blasfema: “E’ il Signore che vi manda!…No, passavamo di qui per caso.” La liberalizzatrice dei costumi: “Ha detto che nostra madre è una vecchia bagascia…Ma è la verità…Sì, ma non è vecchia.” La socio-psicologica: “Non potevo lasciarlo in paese, ha il vizio di dire la verità, è un tipico alcolizzato.” La galante: “Mi appecorono alla bellezza…” La pecoreccia: “Ruspa galina ruspa!” Le ultime due, però, bisogna vederle.