“40 secondi” di Vincenzo Alfieri è un’opera corale e potente che, con rigore tecnico e profonda umanità, ricostruisce le 24 ore che precedono l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, tragico episodio di cronaca italiana del 2020. Il film, tratto dall’omonimo libro-inchiesta della scrittrice Federica Angeli, sceglie con coerenza registica una narrazione a più punti di vista, evitando il semplice biopic eroico per indagare sul contesto, sui rapporti umani e sulle responsabilità collettive.  

Sul fronte della regia, Alfieri adotta uno stile asciutto, sobrio ma viscerale: la macchina da presa resta quasi oscillante, discreta, quasi si sottrae per lasciare spazio ai volti dei giovani protagonisti, in un’atmosfera che si avverte quasi documentaristica. I movimenti di macchina sono privi di qualsiasi virtuosismo: sono lente panoramiche, carrellate moderate, primi piani che mettono in risalto la tensione fisica in ogni dettaglio e interiore. Questa scelta restituisce una sensazione di realismo, di prossimità emotiva, e fa sentire lo spettatore come parte di quella realtà, parte del microcosmo provinciale in cui tutto prende forma. Il regista salernitano, frammenta il racconto in “sei prospettive” (personaggi diversi) e riesce così a costruire una tensione crescente, pur sapendo il triste epilogo.

Lode al cast. Gli attori sono costituiti da un mix sapiente di volti noti e nuovi talenti, di una bravura, ormai, quasi rara. Justin De Vivo, al suo esordio, interpreta Willy con grande delicatezza e rispetto: non è un santo mitico, ma un ragazzo “normale”, con il sogno di diventare chef e con una profonda umanità, verso la famiglia e verso gli amici. Francesco Gheghi ed Enrico Borello interpretano magnificamente alcuni dei giovani aggressori (gli amici dei fratelli Bianchi); un plauso speciale agli antagonisti di questa pellicola, Luca Petrini e Giordano Giansanti, offrendo performance capaci di restituire quel male spesso generato da ferite familiari e sentimenti di rivalsa. Francesco Di Leva (nel ruolo del carabiniere), Beatrice Puccilli (Michelle) e Sergio Rubini (padre di Rossella), portano sullo schermo un equilibrio narrativo tra autorità, vulnerabilità e protezione.  

Anche la fotografia contribuisce in modo decisivo all’atmosfera: la palette cromatica è sobria, spesso fredda e notturna, ma al contempo carica di tensione. La luce è usata come mezzo per esplorare il quotidiano, con ombre lunghe, interni angusti e scorci di città di provincia che parlano di alienazione morale. Non ci sono eccessi cromatici, si privilegiano tonalità terrose, realistiche e non patinate, conferendo al film un peso sociale concreto.

Sul piano della sceneggiatura, Alfieri (che cura anche il montaggio), costruisce una struttura che alterna momenti di calma apparente e scatti di violenza latente. Il ritmo aumenta gradualmente, prendendo la forma di un crescendo emotivo che culmina in quei fatidici “40 secondi”. È il montaggio che, lavorando con precisione, mantiene alta la tensione, anche quando la violenza non è ripresa pienamente in scena. Spesso è suggerita, mai spettacolarizzata, forse per incarnare un occhio provinciale omertoso?  

Il film non trascura il tema della bontà e dell’altruismo di Willy. Alfieri ci mostra un giovane che non si limita a difendere un amico, ma che in quel gesto ha messo tutta la sua delicatezza, la sua lealtà e il suo senso di responsabilità verso gli altri. “Non è un eroe, ma un essere umano splendido che non rimane indifferente”, afferma lo stesso regista. Questa scelta evita la retorica facile e restituisce Willy nella sua dimensione autentica, rendendo ancora più doloroso il contrasto con la brutalità del suo ingiusto destino.

La storia tragica di cui parla “40 secondi”, quella di un giovane di origini capoverdiane ucciso per aver fatto del bene, è uno specchio della violenza giovanile, del maschilismo tossico e dell’indifferenza sociale. Alfieri non punta il dito soltanto contro i carnefici, ma esplora anche le radici del male, che si annidano nelle famiglie disfunzionali, nelle relazioni distorte, nel fallimento continuo, immancabile e puntuale dello Stato e delle agenzie educative.  

Le certezze sono sfocate ma una domanda è chiara: in Italia, la legge è forse troppo leggera o inefficace per chi commette certi crimini? Se da un lato il sistema giudiziario ha preso le sue decisioni (condanne severe, ma non severissime, per gli aggressori), dall’altro la memoria pubblica e culturale sembrano ancora vacillare. L’occhio di Alfieri sembra invitare lo spettatore a riflettere non soltanto sulla giustizia penale, ma sulla giustizia morale e collettiva.

In conclusione, “40 secondi” è come un fragile ponte sospeso sul vuoto della violenza: Willy, con la sua bontà, costruisce un’arcata di luce, ma quel ponte non regge completamente il peso di una società che non ha ancora imparato a sostenersi a vicenda. Il film lascia lo spettatore su quella sponda, a guardare il baratro, chiedendo se si è disposti a ricostruire il ponte, insieme, per non lasciare più qualcuno cadere.

Fonte immagini: Google

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