
“L’enfer, c’est les autres“, recita uno dei capolavori di Jean-Paul Sartre, letteralmente “L’inferno sono gli altri”, con chiaro accenno ad una visione pessimistica della comunanza, dal momento che è la percezione altrui a definirci. Cosa succederebbe se a teatro, un secolo dopo la rappresentazione di “Huis clos”, venisse trasposto “Mettici la mano”, lo spin-off di una delle serie televisive più acclamate dell’ultimo anno?
Alessandro D’Alatri, dopo il trionfo de “Il commissario Ricciardi“, torna ad essere il “Capitano” di una nave destinata a procedere a vele spiegate verso il successo; a bordo un equipaggio ben noto al pubblico: Antonio Milo (nei panni del Brigadiere Maione), Adriano Falivene, (l’indimenticabile e dolcissima Bambinella) ed Elisabetta Mirra (nel ruolo di una ventenne di nome Melina). L’approdo a partire dal 22 ottobre, al Teatro Diana di Napoli.

La scena si snoda in un seminterrato di tufo, nella primavera del 1943. Napoli è devastata dalle bombe e dalla miseria, la paura della morte incombe quotidianamente sulle persone. D’un tratto tre individui si ritrovano in questo spazio limitato, costrette a stare insieme per salvarsi la vita: il primo ad arrivare è Bambinella, un femminiello dedito alla prostituzione ed incline al pettegolezzo, dotato tuttavia di un candore disarmante, probabilmente pronunciato dalla solitudine e dalla necessità di dare e ricevere amore; poco dopo giunge il brigadiere Raffaele Maione, che ha appena arrestato Melina, una giovanissima ragazza animata dall’ardore e dal coraggio necessari alla sopravvivenza. Sullo sfondo la statua della Madonna Immacolata, scampata alla distruzione, davanti alla quale brilla qualche lumino, in segno di devozione da parte degli abitanti della città.

La solidarietà di una tragedia comune farà in modo che questi tre personaggi si confidino a vicenda, ed è sin dall’inizio che emerge il parallelismo con l’opera di Sartre: se per il filosofo le persone chiuse in una stanza guardano verso gli altri considerandoli un inferno, in questa commedia intrisa di tocchi tragici sarà proprio la “Porta chiusa” ad intrecciare simbioticamente diverse vite umane, e la comunanza diverrà un modo per sfuggire all’inferno della morte e della guerra.
La condizione esistenziale renderà tutti inesorabilmente vulnerabili: nel corso della vicenda si scoprirà il motivo dell’arresto di Melina, accusata dell’omicidio del marchese di Roccafusca, a servizio del quale aveva precedentemente lavorato la madre: lo spettacolo diventerà l’occasione per smuovere le coscienze, tra cui quella del brigadiere, integerrimo assertore della “Dura lex sed lex”, eppure costretto a cedere al richiamo della GIUSTIZIA, che molte volte non coincide con la legge. Ciò che è giusto per la propria dignità non sempre rispetta la legge, e di questo ne è pienamente convinta Melina. Ad intervenire in sua difesa l’empatia di Bambinella, che sfiderà il proprio timore reverenziale verso la sacralità e l’osservanza religiosa scavando a fondo l’animo della ragazza con pudore e delicatezza. Bambinella sa cosa significa essere emarginati dalla società in quanto “Diversi“, porta su di sé il macigno dell’abbandono; è degna figlia di Partenope, in cui sacro e profano si mescolano a vicenda. E’ una figura trasversale, che cerca di integrarsi in una città che accetta maggiormente la diversità sessuale. Il brigadiere Maione ha perso un figlio, indossa una corazza che lo induce, in nome della rettitudine, a preservare una severità indistruttibile soltanto all’apparenza, mentre Melina porta a cadere qualsiasi facciata dimostrando quanto i sepolcri imbiancati siano fuorvianti, e quanto la mediocrità vada pagata a caro prezzo. Tre forme di sofferenza discordanti, eppure perfettamente complementari.
Uno spettacolo capace di restituire al teatro il suo ancestrale valore paideutico, trasmettere valori e sentimenti sopravvivendo sulle macerie del mondo virtuale e dell’età della tecnica e dei social; un veicolo sociale, il crocevia di punti di vista e orizzonti comuni. Una forma di relazione in un’epoca di analfabetismo emotivo. In altre parole, la “Ginestra“ leopardiana, che permette di sopportare la vita rinchiudendola nella bellezza che l’arte possiede.

“In teatro la parola è doppiamente glorificata, perché scritta come nelle pagine di Omero ma anche pronunciata“. Solo un poeta come Pier Paolo Pasolini poteva affermarlo, e solo interpreti magistrali dell’odeon sono in grado di confermare.
L’identità tra bellezza e verità, la vita degna di essere vissuta solo come fenomeno estetico. La cultura che merita di non essere discriminata, la migliore forma d’arte attraverso la quale essa riesca a declinarsi. D’Alatri e la sua troupe ci hanno davvero “Messo la mano“, d’altronde la prima è stata una standing ovation a tutti gli effetti.
Il teatro esiste grazie a voi, e chi ha la fortuna di amarlo e di scriverne continua ad esistere grazie al teatro.
