
Mentre l’italica gente si accapiglia sull’opportunità di riconoscere banali diritti alle nuove forme di famiglia, e mentre le nuove forme di famiglia ansiosamente aspettano dall’italica politica un pur minimo riconoscimento giuridico, ci sono delle famiglie, e famiglie nel modo più arcaicamente tradizionale di impostazione, che un tribunale dei minori sta cercando di sfasciare. Non si tratta di famiglie tradizionali in senso family day conservatore/religioso, per quanto tali famiglie siano di solito conservatrici e religiosissime, né di famiglie tradizionalmente legate a valori alti e condotte ineccepibili. Si tratta, al contrario, di famiglie della malavita organizzata, segnatamente famiglie di ‘ndrangheta, con tutti i requisiti propri della specie. Su tutti, la successione lineare di nomi, ruoli, usanze e sostanze. Di padre in figlio “mascolo”, ma se necessario anche di padre in figlia “fimmina”. Il tribunale dei minori artefice di questo affronto all’unità familiare mafiosa è quello di Reggio Calabria, che tante minacce ha dovuto subire e tante ne sta subendo per portare avanti la sua strategia. Strategia che, stando a quanto si legge nell’inchiesta pubblicata su l’Espresso qualche giorno fa, sta dando ottimi risultati nel tentativo di dare un taglio al filo che padri criminali lanciano ai figli legandoli per la vita all’onorata società. Che poi, quasi sempre, i figli degli ‘ndranghetisti finiscono carcerarti o morti ammazzati molto presto, alcuni (non pochi) appena maggiorenni, quando i ragazzi “normali” sono ancora sostanzialmente adolescenti. Ecco perché il tribunale minorile di Reggio Calabria ha deciso di intraprendere la strada dell’allontanamento dalle famiglie nei casi di minori chiaramente (altresì provatamente) educati in famiglia alla maniera mafiosa. Allontanamento vero, con annessa decadenza della potestà genitoriale e spedizione del ragazzo in altra regione. Una soluzione drastica, dura, persino contraria a certi diffusi orientamenti legislativi minorili, persino criticata dal vescovo di una diocesi calabrese (ma sostenuta dai “preti antimafia”), eppure francamente ineccepibile, soprattutto per chi conosce la materia e ha vissuto in prima persona l’esperienza di spartire il sonno (e non per modo di dire) con ragazzi cosiddetti devianti, figli di famiglie criminali (del napoletano). Ragazzi giovanissimi eppure già intruppati come soldataglia di strada, già imputati di reati gravi, fortemente indottrinati al modus vivendi del sistema da cui provengono, al punto da avere imparato, da quel sistema, anche l’arte della finzione scenica e della simulazione di ravvedimento al cospetto dei giudici. E per tali teatrini trascorrere in comunità minorile i giorni della pena, fra tante turbolenze e qualche buona, rara, cosa, ma sempre con un odioso senso di soddisfazione stampato sul viso, quasi a voler dire che sono stati capaci di far mangiare la foglia al giudice (“se l’è ammuccata”, dicono fra di loro) e di farsi mettere nella comunità vicino alla banda, cioè vicino alla famiglia. Famiglia che, va senza dire, fa parte della recita e che continua, pure con l’autorizzazione degli organi competenti, ad avere rapporti col ragazzo e quindi a perpetuargli la sua educazione criminale. Contro la forza di questo tipo di (dis)educazione, a nulla varranno gli sforzi degli educatori della struttura. Perciò il ragazzo “messo alla prova” uscirà dalla struttura a diciotto anni (ma anche prima o dopo) non meno deviante di quando è entrato, solo con una voglia matta di rifarsi del tempo perso e passare all’azione prima possibile. Il messo alla prova, in questi casi, subito darà la prova che la messa alla prova è stata una burletta.
Tornando alla criminalità calabrese, va detto che a incoraggiare il tribunale minorile di Reggio Calabria nei decreti di allontanamento dei giovani virgulti dalla malapianta mafiosa sono state alcune madri, mogli di uomini affiliati, che hanno cominciato a chiedere all’autorità minorile di salvare i figli da un destino già scritto, così sfidando l’inevitabile ira vendicativa di mariti e altri pessimi attrezzi della famiglia. Si sa, dove arriva il cuore di mamma non può arrivare il comprendonio mafioso, e queste mamme dal cuore coraggioso hanno deciso di provare a dare ai propri figli una vita diversa. Contro la propria stessa famiglia, spesso contro la pubblica opinione del proprio paese. Epperò, non aspirando tutte al martirio, alcune madri hanno cominciato a mandare segnali indiretti al tribunale, mettendo a punto stratagemmi per far arrivare il loro grido d’aiuto. Chi tradisce il marito, tradisce la ‘ndrina, e paga con la morte. Ma queste “fimmine ribelli”, come nel libro di Lirio Abbate, sono ormai fuori dalla logica mafiosa a cui hanno deciso di controbattere.
Il tribunale dei minori di Reggio Calabria, sulla base di un protocollo condiviso con procura minorile, antimafia e servizi sociali, ha finora allontanato dalle famiglie una trentina di minori a rischio ‘ndrangheta, perlopiù adolescenti già in fase di addestramento al ruolo di capi, in un’età già “avanzata” ma non per questo irrecuperabili, soprattutto se sradicati non solo dalle famiglie ma anche dal contesto tribale in cui sono nati e cresciuti. L’obiettivo è quello di interrompere la “trasmissione culturale” della ‘ndrangheta che, più ancora di mafia siciliana e camorra, si eredita per sangue. Come si legge anche nell’inchiesta de l’Espresso, nelle regole di ‘ndrangheta esiste addirittura un battesimo d’onore, la “smuzzunata”, diritto e privilegio di cui possono beneficiare solo i figli maschi dei boss. Il marmocchio smuzzunato, rampollo di potente prosapia, entra a far parte della società sin da subito, col destino forzato di percorrere tutto il percorso mafioso fino al vertice della gerarchia. Si battezza ‘ndranghetista un cristiano sin dalla nascita, e lo si addestra al crimine sin dall’età delle elementari. Le figlie femmine vengono date in sposa a figli maschi di altre famiglie mafiose, proprio come dinastie che vogliono allargare il proprio impero. E oggi di impero (economico) si tratta, stante gli impressionanti fatturati delle ‘ndrine.
Su queste premesse, su questi fatti, la “trasmissione culturale” di cui ragionano i giudici del tribunale minorile di Reggio Calabria diventa un inconfutabile meccanismo di passaggio di consegne e di acquisizione di identità dei più giovani, un’identità disturbata in quanto fondata su un sé ovviamente sconfinato e prepotente. Non bisogna essere psicologi per capirlo, e non bisogna essere psicologi per considerare l’educazione familiare mafiosa come una grave forma di abuso psicologico. Rompere allora quel meccanismo, soprattutto in zone in cui la politica è collusa e la camarilla dentro lo Stato, può diventare un modo efficace e intelligente di combattere la criminalità, oltre che di tutelare i minori; prova ne è il fatto che molti dei ragazzi allontanati dal tribunale minorile e spediti al nord Italia non vogliono più saperne di tornare in Calabria. “Dalla confisca dei beni alla confisca dei figli”, è stato detto dai teorici della salvaguardia del legame familiare a ogni costo, critici con i giudici del tribunale reggino; sembra un’esagerazione, una provocazione, a pensar bene una boiata, a pensar male la riaffermazione della solita zona grigia…