
Il nucleo storico della classe operaia napoletana era senza dubbio l’Italsider di Bagnoli, gigante industriale che dava lavoro, comprendendo anche l’indotto, a diecimila di persone. L’operaio dell’Italsider era orgoglioso di lavorare in quell’enorme acciaieria e di indossare la tuta blu con lo stemmino “Italsider”. Una storia di fabbrica e di progresso durata ottantadue anni, dal 1910 al 1992. Pura storia di violentamento della conca di Coroglio, di squasso marino e paesaggistico, ma era il prezzo da pagare alla mesata buona. Poi la famosa sirena ha smesso di suonare e tutto il quartiere ha perso il suo amato/odiato richiamo alla produzione. Al posto della sirena assordante avevano promesso cultura e canto dei gabbiani, ma oggi l’unico canto che si sente è quello dei rapper neomelodici dai lidi sorti su bitumi di cemento.
La crisi e la dismissione di un’acciaieria all’avanguardia in Europa sono emblematiche della crisi di una città, Napoli, pressoché dimenticata dai governi degli ultimi venti anni, i quali hanno invece scoperto “la crisi del nord” (sic). La fine di Bagnoli, narrata malinconicamente da Ermanno Rea nel romanzo “La dismissione” in cui l’operaio specializzato Vincenzo Buonocore esegue con mistica perizia lo smantellamento del suo reparto venduto ai cinesi, è stata dovuta, sì, ad una crisi mondiale della siderurgia, ma anche ad una mancanza drammatica di politica industriale da parte dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni.
In Italia, nel campo siderurgico, si sono salvate le acciaierie di Terni e l’Ilva di Taranto, quest’ultima però causa di gravi danni ambientali e sanitari ormai acclarati eppure in parte evitabili se la proprietà dello stabilimento avesse voluto rispettare le leggi in materia di tutela della salute e dell’ambiente. In Campania, a quanto pare, non c’è fine al peggio; la Regione ha infatti elaborato diversi piani per la bonifica e il recupero di quell’immenso terreno prospiciente il mare. Una società a partecipazione regionale, “Bagnoli Futura”, ha sfornato i piani più svariati per la riqualificazione di Bagnoli, tutti di difficile se non impossibile attuazione, nonché di discutibile utilità come quello che vorrebbe fare della zona un bacino in cui tenere le regate della coppa America. Come dire al popolo disoccupato che il lavoro non c’è né ci sarà, che la sua povertà forse aumenterà, e che però potrà divertirsi una settimana all’anno con lo sport più esclusivo di tutti.
Il governo Renzi, nelle parole dello stesso presidente del Consiglio, ha inserito nel programma “Sblocca Italia” il recupero di Bagnoli fra le priorità governative: speriamo possa essere la volta buona che l’attivismo di Matteo Renzi porti a qualche risultato concreto…Finora, in sei mesi di governo Matteo si è dimostrato molto più bravo a comunicare le cose che a farle, e l’unica cosa realizzata, di cui si vanta non appena possibile, sono gli ottanta euro al mese. Inoltre, nei proclami di Matteo, gli interventi di recupero di Bagnoli dovrebbero avere costi di molti milioni di euro, e francamente non sappiamo se un Paese come l’Italia, che gli ultimi dati ISTAT sul pil del secondo trimestre danno tecnicamente in recessione, potrà davvero affrontare un compito del genere senza la solita stangata autunnale.
Alla vicenda di Bagnoli dismessa si aggiunge, per triste associazione, un altro insopportabile dramma campano di incuria e di criminalità: Pompei. L’antica città romana è solo adesso in rovina, duemila anni dopo l’eruzione del Vesuvio. All’estero dicono di non riuscire a darsi una spiegazione di cotanto scempio, ma lo dicono sogghignando; per questo tutte le grandi televisioni straniere hanno fatto inchieste e reportage da Pompei, hanno sciacallato sulla facilità del lavoro e sull’abbondanza di evidenze per fare grandi servizi, e per parlare di noi come i soliti italiani (e napoletani) arruffoni e disorganizzati. Ma come dargli torto?
Il ministro della cultura Franceschini, che pare svolgere con passione il suo compito, ha parlato di assunzione di nuovo personale di sorveglianza, ma ancora nulla ha detto in merito ad una strategia più ampia di salvaguardia (perlomeno) dell’inestimabile patrimonio archeologico e (potenzialmente) turistico rappresentato dalla città sepolta fino al Settecento. La provocazione è allora inevitabile: conserviamo Pompei nel modo più semplice, cioè seppelliamola di nuovo e aspettiamo tempi migliori per capire come tutelarne muri, intonaci e capitelli. Tanto, una volta toccato il fondo non rimane che risalire.