
C’era una volta il carnevale di Montemarano, un carnevale semplicemente altro dagli altri. Era un carnevale senza arazzi ma senza limiti alle tentazioni oniriche, di matrice anarcoide anche perché permetteva un po’ di riposo dal lavoro nei campi da parte dei suoi attori/contadini. Durava non più di due/tre giorni, e come tutte le cose belle non poteva replicare ogni volta la sua anima in maniera banalmente organizzata. Questo carnevale di contadini e notabili non era bello da vedersi, era solo bello da viversi. Viversi, perché vivendolo i paesani rivivevano loro stessi in una commedia dell’arte straboccante di comica (e spietata) esplorazione della propria condizione umana. E se non si era del posto, magari pure emigrati dall’altra parte del mondo ma per forza nati nel contado o in esso insaccati per parentela, non si poteva viverlo, tutt’al più si poteva assistere, mantenendosi in disparte per non urtare il sentimento intimo di appartenenza della gente del paese, che conosceva quella roba travolgente come si conosce una cosa cara di famiglia. Era il carnevale povero dei poveri, una festa misera e curiosa, tanto astrattamente rivoluzionaria quanto, altresì, allegramente pacificatoria. I contadini lo sapevano che era solo qualche giorno di sovvertimento sociale, di canzonatura dei padroni e di affrancamento dalla schiavitù. Certo, poteva anche tramutarsi tutto in tremenda vendetta, e si dice che qualcuno ci abbia provato a utilizzare quella festa e la sua musica per rivoltare sé e i suoi compagni contro un sistema secolare di muta acquiescenza. Ma quella musica rapsodica orchestrata da artigiani mezzi matti non era un inno di battaglia, forse poteva diventarlo, ma quando i cafoni ci provavano i signori, a mo’ di controrivoluzione, facevano declamare dai loro giullari qualche racconto morboso e clericale de “Lu cunto de li cunti”, e facevano dire che quelle parabole per “criature” in realtà erano state scritte per ammonimento ai grandi di non fare gesti sconvenienti. Allora la rivolta degli ingenui finiva e la storia riprendeva sempre il suo corso bastardo.[divider]In quel carnevale primitivo non c’era alcun copione da rispettare, nessun paradigma dettagliato e neanche improvvisato, l’unica ridondanza che c’era era quella della musica che non si finiva di suonare e dei confetti che non si finiva di lanciare sugli amici e sui nemici. Quando i confetti finivano spesso si riparava sulle pietre…Era una musica particolarissima, magica, presa forse da un pezzo di musica classica, forse da musica zingara, in ogni caso fatta propria dai montemaranesi e martellata di suoni proibizionisti imparati in America e di urla belluine imparate nel Tavoliere.
La chiamavano e la chiamano volgarmente tarantella, ed è la migliore aria popolare della tradizione meridionale, quella inimitabile perché innestata di sonorità e di versi bislacchi che solo chi ce li ha messi può forse ricordare. Era la musica di diversi rituali campagnoli, ma era innanzitutto la musica della marcia di carnevale, e nessuno a quei tempi si sognava di fare di quel corteo tambureggiante, arrangiaticcio e scalcagnato, una mascherata ricercata di uomini e donne troppo coordinati nel ballo per conservare lo spirito ribelle dei padri. Spesso a carnevale c’era le neve, ed era solo l’ultimo ostacolo all’arrivo del cazzeggio forestiero di massa…Forse l’ostacolo principale era solo il rispetto ospite del rito altrui e l’umiltà dei paesani di casa, senza pretese di fare di quella processione liberatoria dalle madonne e dai santi un’occasione di guadagno per le bettole o peggio un richiamo per giovani in cerca di facili bevute. Non che le bevute non ci fossero, ma erano bevute d’altri tempi, un po’ goliardiche e un po’ politiche, e senza solfiti. Era il carnevale di Montemarano, del suo popolo diffidente e arretrato, della sua tradizione collettiva allergica alle vivificazioni posticce e ai rinnovamenti di immagine richiesti dalle mode dei tempi. Non c’era indicazione geografica tipica del carnevale perché non ce n’era bisogno, era quello e tutti lo sapevano; tutti quelli sopravviventi in quella terra di mezzo pietrosa e macilenta che a Napoli consideravano abitata da tribù di montanari inforestichiti dal contesto naturale. I napoletani avevano ragione. E avevano pure paura di avvicinarsi troppo…[divider]Oggi il carnevale di Montemarano c’è ancora, fa parte degli eventi promossi e finanziati dall’assessorato al turismo della Regione Campania…Fatevi un giro sul sito della Regione per avere la prova dell’assimilazione della tarantella di Montemarano a qualsiasi sagra della patata o del finocchietto o a qualsiasi altro carnevale senza anima in corpo e fiato nei polmoni. Se questo è giusto o inevitabile o indispensabile, a me sinceramente non interessa. Non mi piace. Non mi piace la standardizzazione del rito, men che meno la sua omologazione in scaletta a eventi che con esso niente hanno da spartire. Quindi non vi dirò nulla del programma infinito di questa edizione dell’evento carnevale di Montemarano, sono state tutte cose inutili ai fini della rigenerazione del mito e dei suoi buoni auspici. Ma comunque devo salvare dalla tracimazione folcloristica tre giorni: Sant’Antuono (maschere e suoni!), martedì grasso, prima domenica di quaresima. Quelli della festa contadina insomma. Sant’Antonio abate (da non confondersi con quello da Padova), 17 gennaio, inizio del periodo di carnevale: è inverno pieno e giorno in cui le famiglie contadine ammazzavano (e qualcuno ancora ammazza) il povero maiale (di famiglia). E’ sempre un rito di propiziazione di buone cose, e come ogni faccenda di questo paese erotizzante viene ricamata sulle partiture della tarantella. Poi c’è il martedì grasso, cioè il giorno di carnevale (considerato) vero e proprio, ormai baldoria presenzialista allo stato puro.
E infine c’è la domenica successiva a martedì grasso, cioè ieri l’altro, in cui (anche) a Montemarano si celebra il funerale a Carnevale (che di nome fa Vincenzo secondo Roberto De Simone e Annabella Rossi). Funerale tragicomico e farsesco, come molti funerali della morte “vera”. Anche l’orario è quello tipico dei funerali di paese, le tre del pomeriggio. Un fantoccio di paglia portato in funebre corteo e triste litania per le strade del paese, accompagnato da brutti ceffi e donne a lutto intero, e alfine sfociante in una piazza. Qui la salma di Carnevale incontra altri parenti e viene fatta bruciare, a cominciare dalle parti intime, che gli vengono crudelmente sfracassate con un petardo. Solo a questo punto, sotto la guida severa del caporaballo prescelto, riprende la tarantella, potentissima, forse per sovrastare le urla del morto dall’aldilà, forse per dargli l’ultimo convincente saluto, o forse per dimostrare che il vecchio carnevale è morto ma che quello che verrà sarà uguale al precedente. Il rogo è inquietante, seppur simbolo di rinascita e di purificazione dopo tutti i peccati consumati nei giorni precedenti, e si riduce a cenere sul “prestissimo” del brano ancestrale. Dopo il rogo, con un tempo di attesa sempre imprevedibile non solo nei minuti, comincia la lettura del testamento del morto. Un morto in miseria ovviamente, pieno di debiti e di illusioni mai realizzate. Ecco, la lettura del testamento conserva e tenta di rispecchiare l’antica anima puttana del paese, di ogni paese. E’ un testamento lungo, perfezionato in divenire e molto politicamente scorretto. A leggerlo è un notaio per niente azzimato, in rime occasionali partorite dalla fantasia popolare, infinitamente fervida quando lavora per dileggiare compaesani e vecchie zite e così rinsaldare il vincolo comunitario. Il paese in verità sembra stanco, spompato dalle troppe tarantelle affrontate negli ultimi giorni e settimane, quasi insofferente e ansioso di tornare alla splendida cupezza del non carnevale. Anche i cani randagi sembrano inebetiti, assuefatti alla musica e ai suoi ballerini, non ne hanno più alcun timore. L’evento continuerà ancora in serata con l’ultima, forzatissima, tarantellata di gruppo; però gli anziani saggi del paese dicono che adesso, dopo il funerale e il testamento, la rivoluzione è definitivamente fallita e i baroni saldamente ritornati al comando. E’ già l’ora di tornare a pensare al lavoro. Io mi fido di loro e vado via. Alle mie spalle lascio uno sciame sbandato di persone, forse ancora alla ricerca di passatempo domenicale e di confetti in faccia.