Al tempo in cui giocava a pallone lo faceva con tanta grazia ed eleganza che cominciarono a chiamarlo “le roi” (il re), appellativo che in Francia mantiene pur sempre un suo impegnativo significato nonostante Robespierre e la rivoluzione. In realtà Michel Platini, al secolo “le roi”, nasce bene ma non col sangue blu: figlio della media borghesia francese, con un papà insegnante di matematica e un nonno italiano (piemontese) emigrato muratore e diventato gestore di bistrot. Michel viene al mondo in Lorena nel 1955 e sin da bambino, sveglio com’è, capisce di essere talmente abile col pallone fra i piedi da soprannominarsi “Peléatini” o qualcosa del genere. Pelé, un altro re, è infatti il suo idolo pedatorio, come inevitabile sia in quel tempo narrato da rare immagini televisive, con miti sportivi che si nutrono di cronache (scritte) giornalistiche arricchite dalla fantasia di chi scrive. Il piccolo Michel, piccolo proprio di statura e con qualità atletiche non eccezionali (affetto pure da insufficienza cardiaca), a un certo punto dell’adolescenza cresce il giusto e a diciotto anni è uno dei più apprezzati calciatori di Francia. Tesserato per il Nancy, squadra della sua città, vince una coppa di Francia e in quattro campionati segna in totale più di cento gol, arrivando pure terzo nella classifica del Pallone d’Oro 1977. Allora ne acquista le prestazioni il Saint Etienne, al tempo la migliore squadra del campionato d’Oltralpe. Michel ha ventiquattro anni e già da un po’ è il leader della nazionale francese, con cui però al Mondiale del 1978 non ha fatto una gran figura, battuto dall’Argentina padrona di casa e dall’Italia. Con i verdi della Loira invece Platini gioca tre campionati vincendone uno, quello del 1980/81, e diventando il miglior prestipedatore europeo a detta di tutti gli esperti. Lo vorrebbe l’Internazionale di Milano, ma lo prende la Juventus di Torino, il club più nobile e ricco dell’italica pedata; una sorta di viaggio alle origini per Platini, che non a caso già parlicchia l’italiano. Gioca con la Juve per cinque stagioni diventandone simbolo/effige degli anni ’80, quelli del calcio più bello di sempre (più bello nel complesso, non nel senso strettamente tecnico), duellando con altri magnifici di nome Falcao e Maradona, ottenendo rispetto e ammirazione anche dagli avversari, compresi quei tangheri di terzini che gli raschiano le caviglie. Vince molto (fra cui la coppa Campioni della tragedia Heysel e tre palloni d’oro in successione) e molto si diverte a battibeccare con Gianni Agnelli suo datore di lavoro. A proposito dell’acquisto del francese rimane famosa la battuta dell’Agnelli: “Lo abbiamo comprato per un tozzo di pane e lui ci ha messo sopra il foie gras.” Segno che al dandyssimo Agnelli buonanima piaceva molto proprio la Francia, la grandeur, Brigitte Bardot, magari la baguette, sicuramente il socialista Mitterrand che teneva lontani dal governo i comunisti. Forse per questo “l’avvocato” quando parlava con Platini ammosciava ancora di più la erre. Però accostare Michel, bravo bello e simpatico, all’orribile fegato d’oca…
Platini già da calciatore dimostra di essere un potenziale politico, pronto di lingua e di comprendonio oltre che di pedagna, capo dello spogliatoio juventino anche perché difficilmente fottibile dalle domande dei cronisti e dalle punzecchiature di Agnelli. Risponde sempre, sempre garbato, mettendoci una venata ironia e un chiaro egotismo assai “franzosi”. E convincendosi di avercela nel destino (anche grazie al riuscito Mondiale francese del 1998 in cui fa parte del comitato organizzatore), finita la carriera di pedatore e tentata senza molta convinzione quella di allenatore, Platini si dà alla politica, quella pallonar/internazionale ma pur sempre politica. Una politica, anzi, perfino più subdola di quell’altra; una politica in certo senso poco politicante ma molto concreta, nel senso di concretismo pecuniario, dove la carriera dipende dalla disponibilità a tramare, a promettere, a elargire soldi, a contare pochi e comprabilissimi voti decisivi. A mettersi al traino del più potente del carrozzone per prenderne un giorno il potere, anche quando il più potente non è propriamente uomo di cristallo.
E forse proprio per seguire e assecondare il delirio d’onnipotenza del suo capo planetario Sepp Blatter, alfine Platini si è cacciato nei guai. Un re che adesso rischia di finire nella polvere, e di restarci per giunta, vista la richiesta di radiazione a vita avanzata dal comitato etico della FIFA a carico dell’attuale presidente del suo storico ramo europeo (la UEFA). Secondo l’accusa, Platini, peraltro già sospeso dall’incarico di presidente UEFA, sarebbe coinvolto in una storiaccia di corruzione e tangenti, sulla base di un pagamento di due milioni di franchi svizzeri effettuato dalla FIFA, cioè da Blatter, a suo favore (di Platini) nell’anno 2011. Platini cerca di difendersi inquadrando quei soldi come pagamento per una consulenza fatta alla FIFA negli anni 1999-2001, ma sembra una difesa zoppicante. Non solo per la cifra esagerata (una consulenza pagata due milioni di franchi svizzeri?!), ma soprattutto perché proprio nel 2001 Platini veniva eletto vicepresidente della FIFA, cioè di Blatter, sostenendolo ininterrottamente fino al 2011, anno della rottura fra i due. Infatti nel 2011 iniziavano i guai, con un’inchiesta aperta dalla FBI e poi approfondita da autorità giudiziarie svizzere e statunitensi. A questa congettura, che tale potrebbe comunque restare, si aggiungono tante altre coincidenze capziose, su tutte una cena all’Eliseo nell’anno 2010 con commensali Sarkozy presidente di Francia (quindi padrone di casa), Platini presidente UEFA e Al Thani emiro del Qatar, solo una settimana prima che i mondiali di calcio del 2022 fossero assegnati giustappunto al Qatar. Qatar, Paese sul golfo Persico, una delle zone del mondo più naturalmente ricca di gas e petrolio e più naturalmente “inadatta” a giocare a pallone. Platini molto si è sbattuto in favore del Qatar per l’assegnazione del Mondiale, garantendo i voti “suoi” e trovando motivazioni degne da panarabismo militante. E ovviamente quell’assegnazione al Qatar, al pari di quella alla Russia per il Mondiale 2018, è molto sospettata dagli investigatori.
Visto che pure Platini tiene famiglia, in questa insalata potrebbe condirsi anche il figlio Laurent: il giovanotto figlio di cotanto padre ha cominciato a lavorare nel gennaio 2011 per una società guardacaso qatariota, la “Qatar Sports Investments”, ramo sportivo della “Qatar Sports Authority”, il fondo sovrano che sempre nel 2011 ha acquistato il Paris Sanit Germain, la squadra di pallone di Parigi di cui è gran tifoso Sarkozy. L’insalatona di incastri potrebbe arricchirsi, mettendoci dentro l’economia francese, il calcio utilizzato come “grimaldello geopolitico del Qatar” (cit. Les Cahiers du Football) e il piano Blatter/Platini per la successione al primo, ma non vorremmo annoiare.
Fatto sta che a partire dal 2011 Platini e Blatter hanno rotto l’alleanza, e fatto sta che l’inchiesta (una fra le altre) sulla FIFA indagante negli anni 2001-2011 sta scoperchiando un sistema di malaffare clamoroso, in cui nulla, ma proprio nulla, si faceva senza intrallazzare voti, tangenti esose e poltrone per esigenti deretani. Platini per questo non è indagato, ma da vicepresidente FIFA prima e presidente UEFA poi poteva non sapere?…
Detti i fatti, come nei racconti di Simenon vorremmo dedicarci alla personalità del sospetto. Scusandoci mille volte con Simenon e i suoi lettori, potremmo ipotizzare che Michel Platini, similmente a tanti altri miti dello sport e del pallone segnatamente, non avrebbe mai dovuto invecchiare. Spesso succede che il campione, invecchiando, diventi ossessionato dai ricordi e non sopporti vedere l’autostima sbrecciarsi dall’andare del tempo e da una vita diversa che non si riesce a menare in nessuna direzione. Non pochi campioni cadono in depressione, non pochi si danno all’alcol, non pochi accettano di fare le marionette in tv. Certi campioni invece, solitamente quelli che parlano meglio, cercano soddisfazione in qualche ruolo di potere.
Ecco, Michel Platini mai avrebbe dovuto scambiare la gloria della corona per le miserie del potere.
La testa, una volta ornata da un cumulo di nerissimi cirri, è ora coperta da pochi pietosi peli grigiastri, la fronte è altissima e le guance rigonfie. A guardarlo oggi, quel volto magagnato da un naso diventato troppo grande che fa gli occhi troppo piccoli ed erode il ghigno, sembra proprio il volto di un mito stanco che troppe ne deve fare per continuare a ben campare. E pensare che un tempo era uno splendido re. Ce l’ha rovinato la politica.