
Esistono storie nascoste, sconosciute ai più, ma non per questo meno meravigliose. In un’epoca di mezze figure e di talk show televisivi è importante pensare ancora a persone che agiscono per il bene altrui: Pierantonio Costa era una di queste.
Penultimo di sette fratelli, nacque a Mestre il 7 maggio 1939; studiò tra Vicenza e Verona, ed adolescente raggiunse il padre emigrato nello Zaire. Nel 1960, a Bukavu, fece la prima esperienza di guerra africana e, insieme ad alcuni suoi fratelli, traghettò sull’altra sponda del lago Kivu gruppi di profughi provenienti dal Congo.
Pierantonio decise di trasferirsi nel Ruanda non appena fu dichiarato lo scoppio della guerra mulelista; il Paese aveva da poco ottenuto l’indipendenza. Il 5 maggio 1965 ottenne il primo permesso di residenza in Ruanda e da quel giorno fino al 1994 si stabilì a Kigali. Sposò una cittadina svizzera, Mariann, la cui unione portò alla nascita di tre figli.
Imprenditore affermato, durante il genocidio ebbe all’attivo quattro aziende.
Per quindici anni l’Italia gli affidò la rappresentanza diplomatica.
Durante lo sterminio Costa portò in salvo dapprima gli italiani e gli occidentali, successivamente giunse a casa del fratello, in Burundi, ed intraprese una serie di viaggi attraverso il Ruanda per salvare la maggior parte di persone possibile. Egli si avvalse di tutta la sua disponibilità economica e dei privilegi che il titolo diplomatico gli comportò per ottenere visti di uscita dal Paese e per tutti coloro che gli domandarono aiuto.
“Decisi che mi sarei vestito sempre allo stesso modo per essere facilmente riconoscibile: pantaloni scuri, camicia azzurra, giacca grigia. Avrei messo nelle tasche, distribuendole sempre nella stessa maniera, banconote da 5000 franchi ruandesi (corrispondenti ai nostri 20 euro), da 1000, da 500 e, infine, da 100 franchi, per esser sempre pronto ad estrarre la cifra corretta senza dover contare i soldi: se si elargisce troppo si viene ammazzati, se si dà troppo poco non si passa. Bisogna versare la mancia nella misura giusta. Nella borsa avrei portato con me alcuni fogli con la carta intestata del consolato d’Italia. Quanto alla durata delle incursioni oltre confine, avrei evitato di dormire in Ruanda e di viaggiare col buio”.
Grazie al figlio Olivier, Costa operò con i rappresentanti della Croce Rossa e di innumerevoli Ong, ed al termine del genocidio salvò quasi 2000 vite, tra cui 375 bambini di un orfanatrofio della Croce Rossa.
Ricevette la medaglia d’oro al valore civile ed un’onorificenza in Belgio.
Nei cento giorni dello sterminio ruandese del 1994 Pierantonio mise a repentaglio la sua stessa esistenza compiendo azioni straordinarie, perennemente a disposizione del prossimo:” In mezzo a tanta violenza e sofferenza, ero stato capace di fare qualcosa. Solo questo“, e lo affermava con il dolore tipico di chi aveva la consapevolezza che si potesse operare sulla realtà per cambiare le cose. “Ho solo dato ascolto alla mia coscienza. Ciò che andava fatto si doveva fare“.
Candidato a Premio Nobel per la Pace 2011 è morto ad 82 anni “L’angelo italiano del Ruanda”; verrà ricordato nel “Giardino dei giusti del mondo” a Milano e Padova. “E’ stato un uomo buono, ed è riuscito a creare corridori umanitari attraverso i quali ha fatto fuggire nel Burundi centinaia di innocenti, stranieri e locali”, ha affermato Bruno Puggia, attuale console onorario italiano in Ruanda.
Lo Schindler d’Africa per dieci anni mantenne assoluto riservo sul suo impegno per mettere in salvo tante persone. “La mattina voglio guardarmi allo specchio senza girarmi dall’altra parte e provare vergogna”, dichiarò spesso Costa. Con la tenacia e la caparbietà tipiche di un Perlasca, egli comprese che non poteva restare inerme dinanzi a tanta atrocità: il genocidio portò via 973 mila vittime, ovvero 416 esseri umani uccisi ogni ora durante quei 100 giorni.
In mezzo ai machete che spaccavano teste, agli stupri senza scrupoli, ai massacri interminabili perpetrati anche nelle Chiese, Pierantonio Costa continuò la sua attività tra il Ruanda ed il Burundi, compilando la lista di persone da porre “Sotto la protezione del Governo italiano“, a pagare, seppur con pochi franchi ruandesi, gli assassini che fermavano le macchine o i pulmini con a bordo le persone da portare in salvo, oltre confine. Moltissime, se si pensa che si trattava di un solo uomo che si avvalse esclusivamente del potere conferitogli dal suo titolo di console e dalla sua attività imprenditoriale.
“Un uomo solo al comando”, si diceva per il campione Fausto Coppi.
Nel caso di Costa si potrebbe parodiare dicendo :”Un uomo solo di fronte alla violenza, all’ingiustizia ed alla sopraffazione“, ma che seppe affrontare questo turbinio di eventi e lasciare un’impronta indelebile della sua bontà. Costa è riuscito con i suoi slanci generosi a restituirci una speranza sulle sorti del genere umano, sulla possibilità di essere solidali e disinteressati. Il grande poeta Ungaretti racchiuse in questo formidabile verso la condizione dell’uomo che non si sente più un’isola, ma parte di un consesso civile, e la capacità per ogni essere umano di condividere il dolore. “D’un pianto solo mio non piango più“. Pierantonio Costa ha condiviso le lacrime di tanti e ha dato a queste persone la consapevolezza di non essere soli. Grazie per questo piccolo grande uomo.