In un corridoio di un supermercato dagli scaffali pieni
di tutto, gente accalcata su uno stand di barattoli di nutella, spingendosi
l’un l’altro per farsi spazio in una folla soffocante, per riuscire a prenderne
uno o due. Segue la scena di una signora che grida verso un ragazzo. Il video
ha fatto il giro del web.
Accade a Parigi: un gruppo di persone che fanno la spesa riproducono questa scena insensata in tempi di benessere economico e nell’ovest del mondo.
Un quadro che mi ha ispirato diversi pensieri, dal più banale e superficiale sorriso allo straniamento e al non riconoscimento della situazione come possibile, come giustificabile in alcun modo. Fino a farmi pensare alla paradossale somiglianza e, allo stesso modo paradossale, differenza con i tempi di guerra.
In una società resa economicamente povera e priva di
risorse una delle cose che caratterizza i racconti dell’epoca è la scarsa umanità.
La lotta tra poveri, nella quale chi, con le proprie risorse, tenta una
“scalata sociale” in un contesto distrutto, dove la caratteristica saliente è
una costante fame diffusa, si concretizza in un disarmante mors tua, vita mea.
La lotta moderna per aggiudicarsi il proprio barattolo
ricorda per certi versi le tensioni del mercato nero dei beni alimentari. Ma
tra i due c’è una sostanziale differenza: la necessità.
Necessità che oggi non c’è e suona anche un po’ ridicola
alle orecchie di chi ha combattuto una guerra, come a quelle di chi osserva con
uno sguardo un po’ più imparziale.
Quanta consapevolezza c’è nella lotta per la nutella? Perché
si passa alla violenza pur di non aspettare un giorno o due per comprare un
barattolo di cioccolato?
In una condizione di chiusura al mondo, dove gli spazi,
sempre uguali a sé stessi diventano estenuanti per un impaziente uomo
dell’epoca del benessere, fornirsi degli appigli pare diventare vitale.
Ma finite tutte le serie di Netflix, i libri disponibili,
per chi riesce a leggere, visti tutti i nuovi post e le storie dei social, non
resta che riempire il vuoto, esteriore quanto interiore, rimpinzandosi.
Ecco che una dispensa piena diventa fondamentale nel
tentativo di evasione dalla noia e da una costante paura sottintesa di un’ignota
minaccia che ci faccia rinunciare al nostro stile di vita e alla società così
come la conosciamo.
La spinta alla sopravvivenza, anche se un’ipotesi
apparentemente assurda, dato il nemico non bombardiero e crudelmente bellico,
parrebbe spingere la popolazione a prepararsi a un isolamento totale, dove
accanto ai dolciumi forse ci sono anche scatole di legumi e cereali. Ma c’è di
più.
Oggi un isolamento basato sull’attesa risulterebbe
intollerabile. Non reggerebbe. Ecco che anche in uno spazio domestico si sente
la necessità di ricreare una certa ritualità, una routine, che, per quanto
possa somigliare a sé stessa, nei luoghi, nel tempo e nei contenuti, tenda ad
imitare quella che veniva seguita, fino a un mese fa, negli spazi esterni,
quelli popolati da persone che non si incontravano 24 ore su 24.
Il cibo si fa rituale – il cibo è già rituale – e diventa
uno dei centri del nostro nuovo vivere quotidiano. Le valenze accessorie del cibo superano per importanza lo scopo
principale dello stesso (ovvero la nutrizione) per diventare attività:
preparare una torta – alla nutella, ovviamente – coinvolgendo più membri della
famiglia, cimentarsi per la prima volta a fare il pane in casa, condividerlo
sui social per l’approvazione pubblica, rivivere i luoghi antropologici evocati
da una pizza, sottolineare la nostalgia dell’appuntamento per un aperitivo
bevendo una birra su un terrazzo in videoconferenza, dividere la mattina dal
pomeriggio grazie allo spartiacque del pranzo.
In quest’ottica un qualsiasi alimento può diventare
oggetto di contesa, obiettivo di un’arrampicata sociale per un’attività da
poter fare o non fare solo in funzione del possesso o meno di esso.
L’intolleranza verso i surrogati e la storiella
dell’imprescindibile qualità dei brand super pubblicizzati fanno il resto,
perché la violenza contro il prossimo venga giustificata per aggiudicarsi un
alimento, i cui simili nessuno li vuole.
Che questa pausa dalla socialità ce ne abbia fatto apprezzare il valore è fuori dubbio, ciò che resta da vedere è quanto la memoria sia labile. Magari fermarci ci darà il tempo di guardarci da fuori e vedere l’assurdità della lotta al supermercato e, con un po’ di speranza, di molte altre lotte.