
Forse è stato giusto così, se di giustizia si può parlare quando di mezzo c’è la morte di un ragazzo. E di un ragazzo che nulla centrava in quella canizza fra ultras malavitosi organizzata nel pomeriggio dello scorso 3 maggio nella capitale del Paese, scenario involontario ma non innocente della decadenza di un Paese ormai insensibile al malessere sociale che ne accompagna ogni passo appena più lungo della banalità politicante. Nel pomeriggio infame in cui Ciro Esposito da Scampia muore dopo una resistenza di cinquantacinque giorni dal pomeriggio infame in cui un balordo fascistoide, effige ridicola di un delirio misconosciuto, sparava la sua carica di idiozia su un gruppo di ragazzi tifosi del Napoli, anche la rappresentativa nazionale del nostro calcio in disgrazia perde la sua partita psicodramma e torna a casa dal Brasile senza più dirigenza e guida tecnica. Tutti dimessi. Tutti colpevoli. Forse anche noi che ancora ne parliamo. Si gioca a Natal del Rio Grande do Norte, nello stadio detto “arena delle dune” perché Natal è la città delle dune e forse perché la forma irregolare della cattedrale vorrebbe ricordare la duna “Morro do Careca” che è attrazione turistica della città. Si gioca all’una del pomeriggio e fa caldo. La (tanta) pioggia tropicale e rinfrescante infatti cessa di cadere e di esaudire il nostro desiderio poco prima dell’inizio della partita; beffarda, ricomincerà il suo lavoro poco dopo la fine. Gli spalti sono esauriti e la superiorità uruguagia (“Celeste, un equipo un pueblo”) è schiacciante. Cesare Prandelli alla vigilia ha tradito nervosismo, “el maestro” Oscar W. Tabarez ha parlato con grazia e poesia. Anche da questi particolari si giudica un allenatore. Cesare vista la mala parata rinuncia al gusto del gioco, alla ricerca della manovra (scimmiottante) spagnoleggiante e si riconverte alla moderna/antica copertura della difesa a tre, cioè a cinque. Giochiamo con il blocco della Juventus (Buffon-Barzagli-Bonucci-Chiellini) e, al punto in cui ci siamo ridotti, la scelta è insindacabile. Sulle fasce agiscono Darmian a destra e il misterioso De Sciglio a sinistra. In mezzo Pirlo supportato da Verratti e Marchisio. In avanti la coppia inedita (e incognita) Balotelli-Immobile. Rispetto alla scorno della Costa Rica escono Abate, De Rossi e Candreva. La “Celeste” invece è la stessa della partita vinta “con suerte y abilidad” contro l’Inghilterra: difesa dura almeno quanto la nostra impostata intorno al capitano sbrigativo Godìn, centrocampo a cinque con Lodeiro fantasista spesso affiancato da Cavani, attacco sui garretti e sulla virulenza di Suarez già esecutore dei bianchi di sua maestà. Le due squadre sono travagliate dalla paura di perdere e forse pure da quella di esaurire presto le riserve energetiche, per cui la partita è subito brutta come solo le partite dell’Italia sanno essere in questo Mondiale disgraziato. Le situazioni più emozionanti sono i duelli duri e non sempre leali fra Balotelli e i centrali difensivi avversari e fra Suarez-Cavani e i nostri tre stopperoni gobbi. Gli azzurri controllano il gioco, al rallentatore ma lo controllano, e fanno in modo di tenere gli spauracchi della vigilia “pistolero y matador” lontani dalla nostra porta, a usare la loro potenza fisica solo per cercare di divincolarsi dagli abbracci ripetuti di Chiellini e dei suoi colleghi di reparto. Nel mezzo Pirlo fa il massimo che evidentemente gli consente la condizione contingente mentre Verratti ne prende spesso posto e applausi tirando fuori una prova spavalda e precisa; Marchisio corre e poco più. Sulle ali Darmian e De Sciglio non sono capaci di fare le ali e fanno banalmente i terzini: non è colpa loro, terzini sono. In avanti, abbandonati alle marcature dei fabbri uruguagi, Balotelli affronta gli scontri con la sua ingenua irruenza mentre Immobile sembra spesso svignarsela a cercare la profondità ma trovando solo tanti fuorigioco di bandiera e di sostanza. I nostri avversari ci attendono come se la partita fossimo costretti a vincerla noi, però quelle rare volte che trovano i modi di ripartire lo fanno con velocità maggiore dei nostri, quantunque non accumulino altro che un paio di cross tagliati su punizioni laterali e un’incursione nella nostra destra di Suarez e Lodeiro in duetto ben respinti (due volte) da Buffon in uscita. Noi invece non facciamo proprio nulla di pericoloso per il portiere avversario Muslera, che deve solo alzare sopra la traversa un punizione banale di Pirlo. Balotelli in compenso si fa ammonire per un salto di notevole difficoltà finalizzato a mettere i piedi sulla testa di Alvaro Pereira. Super Mario non incide, non gioca bene, senza dubbio non è aiutato dai compagni che non gli danno mezza palla buona. Però diventa troppo facilmente il capro espiatorio della compagnia, il bersaglio facile delle critiche di tutti, anche di Prandelli che nell’intervallo lo lascia negli spogliatoi per fare entrare Parolo. Nel secondo tempo, quindi, l’Italia presenta tre difensori centrali, due difensori laterali, cinque centrocampisti e una sola punta, l’innocuo Immobile. Tabarez percepisce la paura di Prandelli, ordina ai suoi di avanzare e mette dentro una punta, Stuani, per il medianaccio falloso Alvaro Pereira, dopo che nell’intervallo anche lui ha cambiato il fumoso Lodeiro con Maxi Pereira. La temperatura sale oltre i trenta gradi, i nostri cominciano a boccheggiare, ma la spinta decisiva ai sudamericani la dà comunque l’arbitro messicano che al minuto 14 espelle Marchisio per un fallo brutto solo apparentemente costringendo i nostri all’ennesima barricata internazionale. E la barricata regge pure bene con la sola necessità di un grande Buffon su puntata ravvicinata di Suarez. Entra Cassano per Immobile per tentare di tenere palla, perdiamo Verratti causa crampi e Cesare rimette ancora dentro lumacone Motta (ma Aquilani è in Brasile per vacanza?); il coniglio bruno Suarez preme i suoi sporgenti denti incisivi sulla spalla sinistra dell’insopportabile Chiellini, la sfanga al momento ma rischia la squalifica a posteriori; intanto è entrato l’uruguaiano altresì bolognese retrocesso Ramirez che dopo due minuti va a tirare un corner dalla nostra sinistra. Palla nel cuore dell’area verso un groviglio selvaggio di corpi colorato di quattro bianchi e due azzurri, la forza dei quattro travolge i nostri due e una spalla in volo al contrario del capitano Godìn fa carambolare la palla oltre le possibilità di Buffon. Mancano nove minuti alla fine e siamo di nuovo fuori dal Mondiale al primo turno. Tentiamo una reazione di orgoglio collettivo, la perizia pedatoria vedono di mettercela Pirlo e Cassano. Buffon va a provare l’epica nell’area avversaria e se ci riuscisse lo nomineremmo re per gloria di dio (Eupalla) e per volontà della nazione (Italpalla). Ma non ne abbiamo più, e forse neanche ne possiamo più. L’Uruguay festeggia con il suo popolo felice e suadente. Da noi iniziano i processi, in tv, nei bar, nei circoli, negli uffici pubblici, nei postriboli privati, nelle case. E nelle viscere dello stadio delle dune. Cesare l’etico eticamente si dimette insieme al suo mentore Abete, i senatori del gruppo difendono la loro casta e se la prendono pubblicamente con Balotelli, già sul pullman in attesa di ripartire verso il suo destino di ragazzo problematico, solo contro tutti. A diecimila chilometri da Natal un altro ragazzo italiano solo contro il destino non ce la fa, e non ce la fa sul serio. Affanculo il Mondiale.