
E’ la notte di Natale e quattro vecchi amici Lele, Ugo, Stefano e Franco sono invitati a cena da Stefano (ospite nella lussuosa dimora di una delle sue amanti) per giocare a poker: il primo ad arrivare è Lele (che ha il volto di un poliedrico e valentissimo Giovanni Esposito), editorialista scanzonato ed incline alla burla, ma altrettanto sfiduciato per il vuoto generazionale che contraddistingue la società post moderna e per un ruolo di direttore giornalistico promessogli e mai toccatogli davvero; subito dopo li raggiunge Franco, che di comune accordo con Stefano fa credere a Lele che il loro amico sia omosessuale; Franco non sa che di lì a poco arriverà Ugo, anch’egli membro del quartetto nonché migliore amico di Franco, il cui legame reciproco è stato spezzato da un ancestrale rancore tra i due uomini. Ugo introduce nella compagnia un ulteriore componente, l’avvocato Santelia, che viene sfidato dai quattro amici, cosa che per Franco vorrebbe dire ottenere la cifra necessaria per ristrutturare il cinema di cui è proprietario insieme al suocero.

Marcello Cotugno, nella magnifica cornice del Teatro Bellini, porta in scena l’adattamento di un capolavoro del 1986 del maestro Pupi Avati, “Regalo di Natale“: nel corso della performance la tensione drammatica si snoda attraverso i ricordi del passato dei protagonisti, ed ogni personaggio svelerà un lato estremamente fragile del proprio animo. Una poetica dolceamara scandisce l’atmosfera in sala, con la vena ironica che caratterizzò “Amici miei” di Mario Monicelli: quest’ultimo seppe raccontare l’amarezza dell’età adulta, il bilancio di un’esistenza scandita dai rimpianti; quattro amici, ognuno in fuga da qualcosa, chi dalla miseria, chi dall’amore, chi dalla routine, ma tutti in fuga da un elemento centrale del racconto, ossia la noia del presente: la noia della famiglia borghese, dell’impiego fisso, la noia del matrimonio, la noia di un mondo schematico fatto di nascita, lavoro, riproduzione, morte. L’unico modo per ingannare questo eterno ritorno del quotidiano è inventarsi qualcosa di stupido, infantile, insensato e palesemente inutile, un puro divertimento demenziale che coinvolge gli amici nel momento del bisogno. Ed è qui che Cotugno ha saputo tracciare un’abile analogia con l’opera di Pupi Avati, in sacrificio collettivo all’opulenza, alla disperazione che deriva dall’avere tutto senza sentirsi padroni di nulla, l’agio che si deforma fino a diventare un demone di cui è impossibile liberarsi se non con la morte. Il poker come allegoria dell’azzardo, del rischio, un “Match point” stile Woody Allen, sul piatto della bilancia non solo i soldi ma anche i fallimenti, le sconfitte, i tradimenti, le bugie, gli inganni.
Gigio Alberti, Giovanni Esposito, Valerio Santoro, Gennaro Di Biase e Pierluigi Corallo incarnano gli amici di una vita che non si incontrano più per fare scherzi e per ammazzare il tempo, piuttosto per saziarsi fino a morire in uno stato di tracotanza luculliana.
Il tavolo da poker illuminato da luci variopinte e da una pedana roteante, metafora perfetta della stortura che sta alla base della nostra società, dove c’è chi ha fin troppo spazio nelle sue giornate da dedicare agli scherzi e chi non ha nemmeno il tempo di accorgersi che sta vivendo. I quattro uomini si ritrovano ancora una volta annoiati, stanchi, consapevoli della loro fondamentale e insolubile inutilità: Franco ed Ugo sono due facce della stessa medaglia, contraddistinto l’uno dall’amore viscerale e sincero per Marta, l’altro da un irriverente arrivismo che ha spinto la donna a tradire il marito proprio con lui; la morte di Marta ha sconvolto definitivamente Franco, che al termine della serata esorterà Ugo a “Dire una volta tanto la verità“, chiedendogli se almeno un giorno del tempo trascorso insieme alla donna l’abbia amata davvero.
L’avvocato Santelia (interpretato da un magistrale Gigio Alberti) identifica una voce fuori dal coro, una presenza diabolica che rompe il precario equilibrio del gruppo, un personaggio che sembra ambiguo senza esserlo realmente, e che solo alla fine si libererà della maschera rivelando la sua essenza: costui non è altro che un baro professionista, e lo stesso Ugo aveva organizzato la serata per truffare Franco; un “Regalo di Natale” individuale, eppure collettivo; ci si lascia dietro speranze, mani strette, parole smorzate e fiati sospesi.
Chi perde la sua individualità perde tutto, perché nessuno dei quattro amici dopo questa serata sarà più lo stesso.