
Europe 2020 è uno di quei documenti che l’Unione Europea definisce strategici. Specificamente di pensata decennale, proposto e imposto dalla Commissione Europea nel 2010. Si tratta del sostituto della strategia di Lisbona 2000 che voleva coordinare le politiche socioeconomiche dell’Unione Europea. Ricordiamo che la strategia di Lisbona si prefiggeva di trasformare l’Europa ne “La economia basta sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Notando la congiuntura economica favorevole, gli economisti dell’Unione ritenevano quello (di Lisbona) il momento adatto per dare l’avvio a riforme economiche e sociali. Poi la congiuntura favorevole è presto finita e gli obiettivi di Lisbona nella maggior parte dei Paesi membri non sono mai stati raggiunti. Quindi, dieci anni dopo quel Consiglio Europeo del marzo 2000, i cervelloni economico/sociali dell’Unione Europea hanno tirato fuori “Europe 2020”. Una dichiarazione di buone intenzioni che riprendono alcune buone intenzioni di Lisbona e che viene fondata su cinque buone intenzioni principali: occupazione, ricerca e sviluppo, cambiamenti climatici e sostenibilità energetica, istruzione, lotta alla povertà e all’emarginazione. Europa 2020 (volgarizzandone il nome) è una strategia comune alle istituzioni europee, agli Stati membri e alle parti sociali. A livello europeo, ogni istituzione sarebbe tenuta a garantire, nell’ambito delle sue competenze, che l’Unione si muova nella giusta direzione per raggiungere gli obiettivi di cui sopra. A livello dei Paesi membri, i capi di Stato e di governo, le amministrazioni regionali e locali, e pure la società civile e le parti sociali sarebbero chiamate a identificarsi pienamente con la strategia. In che modo? Sostanzialmente in due modi, apparentemente semplici, e cioè attuando le riforme necessarie a livello nazionale per stimolare la crescita (ad esempio aumentando gli investimenti nella ricerca) e collaborando con la Commissione sulle sette iniziative prioritarie.[divider] Queste ultime magnifiche sette sono a loro volta suddivise (e contenute) in tre tipi di fioritura socioeconomica invocata dal documento: crescita intelligente, crescita sostenibile e crescita solidale. Ogni anno ad aprile i Paesi dell’Unione sono tenuti a presentare due relazioni per illustrare ciò che stanno facendo per avvicinarsi agli obiettivi nazionali della strategia Europa 2020. Questi programmi di stabilità e convergenza vanno presentati prima dell’approvazione del bilancio per l’esercizio successivo e devono contenere (soprattutto) indicazioni utili sulle finanze pubbliche e la politica di bilancio. In pratica i programmi nazionali di riforma vanno presentati insieme ai programmi di stabilità e convergenza e dovrebbero contenere gli elementi necessari per verificare i progressi (o i regressi) compiuti nella crescita intelligente, sostenibile e solidale impetrate nella strategia. Nonostante i sacri vincoli di bilancio (mai in discussione neanche per ipotesi d’irrealtà), i governi devono impegnarsi a garantire le magnifiche sette priorità, alla cui preferenza devono prendere parte anche le amministrazioni regionali e locali, le parti sociali e altri soggetti interessati, in modo da crearsi un’ampia base di sostegno all’attuazione delle politiche. Tanto per cambiare solo il Parlamento Europeo sembrerebbe escluso da ogni cosa…[divider]«Il 2010 deve segnare un nuovo inizio. Voglio che l’Europa esca rafforzata dalla crisi economica e finanziaria. (…) La crisi è un campanello d’allarme, il momento in cui ci si rende conto che mantenere lo status quo ci condannerebbe a un graduale declino, relegandoci a un ruolo di secondo piano nel nuovo ordine mondiale. E’ giunto il momento della verità per
l’Europa. È il momento di essere audaci e ambiziosi. La nostra priorità a breve termine è superare con successo la crisi. Sarà ancora dura per qualche tempo, ma ce la faremo. Si sono compiuti progressi significativi nel trattare con le “bad bank”, regolare i mercati finanziari e riconoscere la necessità di un forte coordinamento politico nell’area dell’euro. I leader europei condividono la medesima visione degli insegnamenti che si possono trarre dalla crisi. Riconosciamo altresì l’urgenza delle sfide future. Insieme, dobbiamo fare di questo obiettivo una realtà. L’Europa presenta molti punti di forza. Possiamo contare su una forza lavoro capace e su una straordinaria base tecnologica e industriale. Abbiamo un mercato interno e una moneta unica che ci hanno aiutati con successo a far fronte al peggio. Abbiamo un’economia sociale di mercato collaudata. Dobbiamo avere fiducia nella nostra capacità di stabilire un programma ambizioso per noi stessi e adeguare gli sforzi per realizzarlo. La Commissione propone per il 2020 cinque obiettivi misurabili dell’UE (…) La via del successo consiste in una vera titolarità dei leader e delle istituzioni europei. (…) Se agiremo insieme potremo reagire e uscire più forti dalla crisi. Abbiamo i nuovi strumenti e una rinnovata ambizione. Ora dobbiamo trasformare i nostri obiettivi in realtà.» Firmato Josè Manuel Barroso, presidente (al tempo appena riconfermato) della Commissione Europea.[divider] Se volessimo analizzare (almeno) la premessa barrosiana di Europa 2020, e soprattutto se la rapportassimo alla situazione italiana, probabilmente ci cadrebbero le braccia dalla tristezza. Anche perché, in alcuni tratti del suo slancio presidenziale, il lusitano Barroso sembra volersi burlare degli europei un po’ più così (come gli italiani) e forse anche voler misurare la loro pazienza. Alcuni punti a nostro parere discutibili(ssimi): tanto per cominciare, anche nel 2010 la crisi non era il “campanello d’allarme” (come scrive Barroso), era già l’allarme impazzito e assillante dei nostri sistemi economici; il momento di essere “audaci e ambiziosi” per superare con successo la crisi non si è ancora capito quando arriverà; i “progressi significativi” nel “trattare” (si badi bene, trattare scrive Barroso, non contrastare) con le bad bank e nel regolare i mercati finanziari sono piuttosto misteriosi; “il mercato interno e la moneta unica” misericordiosi protettori dal peggio senza fine forse sono stati tali per la Germania e qualche sua amica, certo non per gli altri; la gloriosa “economia sociale di mercato collaudata” è ormai (ahinoi) un ricordo da libro di storia economica. E ancora, la “vera titolarità dei leader e delle istituzioni europee” come via sicura del successo potrebbe forse significare svuotamento delle democrazie interne degli Stati? “I nuovi strumenti e la rinnovata ambizione” sono forse quelli imposti dalla Commissione e dalla banca Centrale per finire di affossare Grecia, Portogallo, Spagna e via andare?…[divider]Andando oltre Barroso, nella parte meno pleonastica del documento, dopo tanti buoni propositi, arrivati alle condizioni per raggiungerli, si scopre che la condizione in realtà è pressoché unica: finanze pubbliche sane (e te pareva!). E come risanare le finanze pubbliche? Dice il documento che, se proprio dovesse rivelarsi necessario aumentare le tasse (ma no!), queste non dovrebbero riguardare il lavoro ma piuttosto le tasse energetiche e ambientali nell’ambito di un sistema fiscale più “verde”. Ora, cosa cavolo significherà mai sistema fiscale “verde” è una domanda disperata quasi senza risposta. L’unica (risposta) plausibile è quella che rimanda a incentivare la riduzione del consumo di risorse naturali attraverso imposte e tasse e, contemporaneamente, diminuire l’onere fiscale su capitale e lavoro. In tal modo, secondo alcuni eco/liberisti, ci sarebbe un risparmio nell’utilizzo delle risorse naturali e un aumento dell’occupazione. Ma è teoria da dimostrare…[divider]Come per vezzo ciclicamente irrinunciabile, la Commissione dà il meglio di sé quando incita a sforbiciare il welfare: “Il risanamento di bilancio e la sostenibilità finanziaria a lungo termine non possono prescindere da importanti riforme strutturali, in particolare in materia di pensioni, sanità, protezione sociale e sistemi di istruzione. L’amministrazione pubblica dovrebbe cogliere questa occasione per potenziare l’efficienza e la qualità del servizio.” Infatti, quando nel burocratese europeo si parla di riforme strutturali e di potenziare l’efficienza e la qualità (giammai l’efficacia e la quantità) di un servizio, abbiamo imparato che la filippica significa “tagli lineari”. Nelle direttive di Lisbona si intravedevano (perlomeno) obiettivi di carattere sociale, per quanto derivati da quelli economici; in quella Europa 2020 invece gli obiettivi di carattere strettamente sociale scompaiono o quasi, e anche a volerli derivare dagli altri si fa fatica. L’unico (nuovo) obiettivo veramente sociale è quello relativo alla riduzione della povertà. Nel documento di Lisbona si parlava genericamente di lotta alla povertà, nel nuovo
invece si impone (?) di ridurre del 25% il numero di cittadini europei al di sotto della soglia di povertà. Oddio, mentre parla di riduzione della povertà la Commissione subito puntualizza che l’obiettivo prioritario è sempre la riduzione del deficit degli Stati e l’inappuntabilità delle finanze pubbliche, e non si capisce (né la Commissione spiega) come i due obiettivi (meno povertà e meno deficit pubblico) possano bellamente coesistere in Paesi un po’ disastrati come il nostro.[divider]Venendo all’Italia allora, fra tutte le mancanze del nostro Paese rispetto agli obiettivi di strategia, con la chicca del potenziale contagio del nostro debito pubblico (come se fosse una malattia epidemica…) all’intera zona euro pubblicamente temuto dalla Commissione, il dato più preoccupante (almeno nel nostro modo di vedere le cose) è quello relativo all’aumento dei poveri. In verità è l’Unione nel suo complesso ad andare in direzione contraria (e ostinata) alla riduzione dei poveri (e quindi a tutto l’impianto teoretico del suo sistema), ma con delle differenze anche consistenti fra un Paese e l’altro. Le più virtuose finora sarebbero state Germania, Lettonia e Polonia, vicinissime ai loro obiettivi di riduzione della povertà. Le peggiori Grecia, Spagna, Ungheria e Italia. Ovviamente l’aumento della povertà è direttamente collegato a quello della disoccupazione, e in questo senso già l’implacabile ISTAT ci aveva preannunciato il dramma a fine 2013. La domanda scomoda diventa inevitabile: ma per far crescere l’occupazione, le strategie di austerità e di abbassamento delle protezioni sociali dettate dalla Commissione sono proprio adatte?…Sperando di non apparire sempliciotti anacronistici, a noi sembra che altre gravi crisi economiche, a partire da quella americana del 1929 (ma anche qualcuna più umile solo italiana, 1974-75 per esempio), sono state superate con strategie concrete e pesanti (altro che belle intenzioni) di new deal, di piena occupazione “gonfiata” e di redistribuzione del reddito. Tutte cose “keynesiane” proibite per la Commissione Europea e la sua Banca Centrale. Che puntualmente poi ci bacchettano e ci umiliano, e a cui forse dovremmo cominciare a rispondere che noi siamo disposti a prenderci le nostre colpe, ma non più le loro…