“Il lato oscuro degli uomini” il titolo del libro a cura di Alessandra Bozzoli, Maria Merelli e Maria Grazia Ruggerini è stato presentato mercoledì 11 marzo a Palazzetto Urban, in via Concezione a Montecalvario.
Ne hanno discusso, insieme all’autrice dell’Associazione Le Nove, Clara Pappalardo del Centro Antiviolenza Aurora, Tania Castellaccio della Casa per donne maltrattate Fiorinda, Lella Palladino della Cooperativa EVA, Antonella Bozzaotra dello Sportello “Oltre la Violenza” – Asl Napoli 1, Aldo Policastro – Magistrato, Simonetta Marino – Consigliera con delega alle Pari Opportunità del Comune di Napoli, Roberta Gaeta – Assessore alle politiche sociali del Comune di Napoli moderati da Andrea Morniroli della Cooperativa Dedalus.
“Il lato oscuro degli uomini”, con i suoi modelli culturali di intervento, espone e propone, tra le altre, anche una ulteriore prospettiva per il contrasto alla violenza di genere, sottaciuta fino a oggi, clamorosamente;
Il titolo del libro si incentra su una prospettiva non abituale, quindi: quella che individua nell’ambito della “violenza di genere” non solo la “vittima”, la donna bensì, finalmente, anche “l’autore della violenza”, l’uomo maltrattante.
Il testo mette in risalto il fatto che la violenza di genere sia una “follia della normalità” e che la grande lacuna – per attuare una prevenzione adeguata e radicale, che comporti una piena assunzione di responsabilità singola e collettiva, – consista nel mancato coinvolgimento, inteso come intervento personale e spontaneo, del “maschile” all’interno della scena “del narrare la violenza”.
Il testo ha raccolto dati, fotografato la situazione attuale – seguendola nei suoi sviluppi – e indagato gli approcci nell’ambito della violenza di genere; approcci diversificati e ancora in divenire, da perfezionare e da “stabilizzare”. Approcci che hanno mostrato in pieno tutta la loro validità.
Rispetto ai dati sulla violenza di genere viene confermata l’importanza – per il contrasto alla violenza sulle donne – degli “Sportelli”, dei “Centri Antiviolenza” e delle “Case famiglia” per il sostegno delle donne che hanno subito violenza e per i loro figli e, contestualmente, induce a riflettere sulla creazione, innovativa, ma ancora tutta da indagare, dei “Centri di ascolto per uomini maltrattanti” e sulle eventuali conseguenze all’interno di una consapevolizzazione del problema della violenza di genere come problema singolo e contemporaneamente sociale.
Se la creazione di “Centri di ascolto per uomini maltrattanti” può essere considerata un segnale, di una diversa attenzione e di una nuova prospettiva, in aggiunta alle altre, verso il problema, è comunque pur necessario richiamare realisticamente l’attenzione sulle probabili strumentalizzazioni, da parte dell’uomo maltrattante.
Per questo motivo si richiede agli operatori dei “Centri di ascolto per uomini maltrattanti” una profonda conoscenza delle statistiche nazionali e internazionali riguardo sia alla recidività della violenza sia al grado di consapevolezza “maturato” dall’uomo maltrattante rispetto alle proprie azioni. Quest’ultimo comincia a realizzarsi, secondo le suddette statistiche, solo dopo ben quattro anni di frequentazione di tali tipi di centri; inoltre si allerta gli stessi operatori a non farsi eventuale strumento di una ulteriore sperequazione che si realizzerebbe a tutti gli effetti come “violenza secondaria” verso la donna maltrattata, redigendo relazioni documentarie riguardante l’uomo maltrattante che vi si rivolge.
Il rischio che si corre è che la documentazione relativa venga utilizzata come attestazione di definitiva “riabilitazione” dell’uomo autore di violenza contro la donna, sia durante un eventuale processo sia nella relazione che dovrebbe essersi conclusa e codificata con l’allontanamento dell’uomo violento e, anche, conseguentemente, nell’ambito dell’affidamento dei figli.
Un esempio concreto dell’equivoco cui si può giungere è in riferimento al Carcere di Santa Maria Capua Vetere, in cui la maggioranza degli uomini, rei di violenza su una donna, si è pronunciato a favore del progetto solo in cambio di sconti della pena; dimostrando di non aver assolutamente preso coscienza del proprio atto efferato, discriminatorio e censurabile; anzi si dimostra e si riscontra una sorta di “inconsapevolezza” dell’uomo maltrattante rispetto alle proprie azioni.
Si tratta di realizzare una vera e propria “rivoluzione culturale”.
Non solo, e non più, guardare alla vittima della violenza bensì richiedere una piena assunzione di responsabilità all’autore della violenza, ricordando bene che la violenza è molto democratica e non divide la società né tra Nord e Sud né differenzia tra loro strati sociali.
È innegabile infatti, come afferma Tania Castellaccio, che nonostante la Dichiarazione dell’ONU del ’93 e la dichiarazione di Instambul del 2011 esista ancora una disparità di potere tra i sessi così come la cultura patriarcale sia ancora perdurante e pervasiva.
Motivi sostanziali e concreti, questi, che rendono difficile il sostegno delle donne maltrattate come anche la prevenzione della violenza sulle donne e la salvaguardia dei loro stessi figli.
È necessario, in un inquadramento sociale generalizzato, quindi, “mettere a sistema” ciò che esiste già, come gli “Sportelli”, i “Centri Antiviolenza” e le “Case”, come “Casa Fiorinda”, per le donne che sono riuscite a allontanarsi dal “sistema della violenza familiare”.
“Mettere a sistema” significa non incorrere in problematiche burocratiche o economiche che possano comportare persino la chiusura definitiva come si paventa per “Casa Fiorinda”; “mettere a sistema” grazie a una strutturazione di tali centri all’interno del sistema sociale al quale, questi, offrono un servizio, per la tutela delle donne e dei loro figli, che diventerebbe sempre più permanente e capillare;
“Sportelli”, “Centri” e “Case d’accoglienza” che, grazie alla forte determinazione e perseveranza di donne volontarie e non, stanno sopravvivendo nonostante le difficoltà economiche e non; “Sportelli”, “Centri” e “Case” per i quali si corre il rischio di sottratte le risorse in favore dei centri per uomini maltrattanti.
Un rischio che ha il fondamento in un equivoco di fondo. La violenza non è patologia e non ha i requisiti per essere “trattata” in modo psicologico.
Tale rischio rende anche chiaro che il problema della violenza di genere è ancora in via di definizione culturale.
L’approccio psicologico “istituzionalizzato” distoglierebbe, di fatto, l’attenzione dalla puntualità della definizione del problema della violenza stessa, cioè che la “violenza è tale sempre e comunque”.
L’unico approccio risolutivo contempla un lavoro culturale a tutto tondo, attorno e per la donna e per i suoi figli, con cui “operatori” formati, “sensibilizzati” e specializzati nell’ambito della “violenza di genere”, lavorino, – come già si realizza in pieno per la struttura di Casa Fiorinda, – con le Forze dell’Ordine, i magistrati, i medici, gli insegnanti e la scuola. Perché la violenza riguarda tutti.
La violenza quindi riguarda ognuno di noi, donne e uomini, ribadisce e sottolinea l’Assessora con delega alle Pari Opportunità Simona Marino.
E’ importante non porre sullo stesso piano i “Centri per uomini maltrattanti” con i “Centri antiviolenza” per donne maltrattate; il cambiamento da attuare riguarda l’intera cultura che al momento è, nei fatti, ancora maschilista e non ancora modificata, comportando di conseguenza una ben difficile gestione dei “Centri per uomini maltrattanti” e l’intervento con e su di loro, se si resta in una prospettiva completamente diversa da quella della violenza di genere.
Il rischio è di “patologizzare” la violenza contro le donne e di tralasciare un atto importante per una “presa di coscienza” personale e collettiva della violenza. Una presa di coscienza di cui ogni attore della questione, dagli operatori sociali, agli psicologi, ai medici fino ai magistrati dovrebbe relazionarsi in modo edotto e sensibilizzato.
Posta al centro dell’attenzione del problema della violenza sulle donne è, quindi, la “questione maschile”, grande assente, fino a oggi.