
“Metti una sera con Maurizio De Giovanni“, a pronunciarlo sembra il titolo di una pièce teatrale con grande successo di pubblico e repliche che si susseguono per anni; eppure è cominciata così la realizzazione di uno dei miei più grandi sogni sin da quando ero bambina, intervistare uno scrittore la cui notorietà è pari alla bellezza dei suoi racconti.
Vengo immediatamente accolta da un’atmosfera gioviale e così familiare che mi sembra di averla già vissuta, mentre il sorriso di Maurizio mi guida nel corso della nostra chiacchierata; il suo sguardo mite e sincero incrocia i miei occhi, che non smettono di prestare attenzione alla profondità delle sue parole, al trasporto con cui descrive i personaggi dei suoi libri. Maurizio è molto più di un autore, Maurizio è l’amico della porta accanto, il professore che a scuola non aveva mai il coraggio di punire gli studenti, perché troppo impegnato a trasmettergli l’amore per il sapere; Maurizio è un padre che ha fiducia nei propri figli, ed io sono onorata che un pò di fiducia l’abbia resa a me, concedendomi parte del suo tempo e lasciandosi trasportare dalle mie domande, formulate mentre un dolcissimo gatto ricercava le fusa sdraiandosi tra le mie braccia.
- Maurizio De Giovanni, uno dei più grandi scrittori contemporanei, la sua fama è paragonabile al suo talento: per Cioran scrivere era terapeutico, addirittura era il mezzo per non impazzire, per Sartre era una specie di missione, per Maurizio De Giovanni cosa ha rappresentato e cosa significa scrivere?
“Io racconto storie, non faccio altro che raccontare storie, non ho una particolare tensione per la scrittura e non l’ho mai avuta; mi definisco un lettore, in quanto la parte principale, quella di cui non potrei mai fare a meno è leggere. Scrivere è casuale, si tratta di un evento accaduto nella parte tarda della mia vita, che non avrei mai pensato capitasse. Sono contento che vengano condivise le mie storie, che queste ultime piacciano a molte persone, però essenzialmente io non possiedo il sacro fuoco: se ho un’ora di tempo preferisco leggere anziché scrivere. Non sono un uomo che cerca gratificazioni dalla scrittura, è un evento che mi diverte, mi allieta, sono grato che vengano condivisi i miei personaggi, ed apprezzo tutto della scrittura. Tuttavia, se devo dirle che io non potrei vivere senza di essa, le direi una bugia”.
- Lei ha vinto un concorso letterario riservato ai giallisti emergenti nel 2005, con un racconto ambientato nella Napoli fascista degli anni Trenta, che ha per protagonista “Il commissario Ricciardi”, di cui tutti ormai abbiamo imparato ad amare personaggi e trama; soffermiamoci un pò sul protagonista: Alfredo Ricciardi è un uomo dolente e solitario, per la sua capacità di vedere gli spettri delle vittime di morte violenta. Come è scaturita questa invenzione letteraria? Ritiene che Ricciardi sia un personaggio “Esistenzialista”, condannato alla solitudine e all’incomunicabilità al pari dello “Straniero” di Camus o simile a Roquentin de “La nausea” di Sartre?
“Ricciardi nacque per caso: fui iscritto al concorso letterario da alcuni amici che desideravano farmi uno scherzo, dato che mi vedevano sempre con un libro tra le mani, e fu proprio partecipando a questo concorso che mi venne quest’idea, in maniera abbastanza estemporanea, ovvero al di fuori della vetrina del Gambrinus, il luogo in cui si svolgeva il concorso; passò una bambina, nessuno se ne rese conto, ella fece una boccaccia, ed io scrissi di una persona che era seduta lì al mio posto, mentre io vedevo qualcosa gli altri non c’erano. Decisi di collocare la storia negli anni Trenta perché il Gambrinus è liberty, dunque mi venne naturale ambientarla in quel momento storico. Non so dirle se Ricciardi sia un esistenzialista, immagino di si, però non credo che la sua patologia sia così rara e così limitabile a un’unica condizione; Ricciardi è una persona solitaria, io credo che nulla sia più solitario del nostro tempo: trovo che tutti noi che siamo connessi, che ci riteniamo in comunicazione costante con tutti, nella realtà siamo un arcipelago, molto fitto ma di isole. Rappresentiamo attraverso i social delle figure che non corrispondono alla realtà, nessuno di noi è come vuole apparire; questo accade sempre nella vita, è sempre accaduto, ma i social incrementano enormemente questa situazione. Noi presentiamo fotografie che non ci assomigliano, diciamo cose a cui non crediamo fino in fondo, aderiamo a posizioni che non sono del tutto le nostre, ci diciamo sinceri ma questa nostra sincerità è molto mediata, è molto passata al vaglio di ciò che vogliamo sembrare. Pertanto io credo che Ricciardi sia molto più vicino al nostro tempo che al suo”.
- Le indagini del Commissario Ricciardi sono ambientate in una Napoli d’antan, che lei descrive alla perfezione, dimostrando di trovarsi a suo agio nel fare agire i personaggi in quel contesto storico: quanto è cambiata, e se lo ha fatto in meglio, la sua città nel corso degli anni? E Ricciardi potrebbe esistere ed agire nella contemporaneità?
“Napoli è un posto strano, perché possiede un’identità composita: tendiamo a guardare il passato in maniera migliorativa rispetto al presente, ma in realtà non è così. Il passato prevede delle condizioni terribili, la Napoli degli anni Trenta vedeva un bambino su cinque morire prima di arrivare ai due anni; c’erano malattie endemiche gravissime, c’erano situazioni davvero terribili in cui viveva la gente, la maggior parte delle persone. La storia racconta della alta borghesia e dell’aristocrazia, per cui tutto ci appare bello, patinato, molto ricco, ma non è vero. Oggi, pur nella rarità di situazioni e di condizioni di alcuni quartieri della città, pur essendo un posto per molti versi estremamente arretrato rispetto al resto del Paese, possiamo dire che Napoli sia nettamente migliorata dal punto di vista delle condizioni di vita; se parliamo della cultura, dei valori, allora non saprei dirle se Napoli sia migliorata, ma di certo essa è molto migliorata per le condizioni di vita delle fasce più basse della popolazione”.
- Bambinella, uno dei personaggi più amati del Commissario Ricciardi e magistralmente interpretato sul piccolo schermo da Adriano Falivene, il “Femminiello” tipico dei vicoli napoletani, può essere definito un medium, un tramite, per descrivere le subalternità di una classe sociale, già plebe, ora proletariato urbano, in un’epoca in cui la stratificazione sociale era molto rigida, senza omologazioni pasoliniane e aspirazione di emancipazione?
“Non c’è dubbio, la sua è la lettura giusta. Bambinella rappresenta il tramite necessario di un luogo, forse l’unico in questo Paese, in cui tutte le classi sociali convivono in uno spazio ristretto; nelle altre città i quartieri bene e i quartieri popolari sono divisi, lontani l’uno dall’altro, basti pensare a Roma, ad esempio, in cui Tor Bella Monaca e Prati sono fisicamente distanti. A Napoli, a via Toledo, a Chiaia, allo stesso Vomero centro, considerando il Petraio, considerando l’Arenella, esiste una stratificazione molto più intensa, una convivenza delle classi sociali, quindi fatalmente c’è dialogo: acqua e olio non si mischiano nello stesso bicchiere, eppure sono vicini l’uno all’altra. Pertanto il tramite è costante ed è forte: i Femminielli sono un fatto storico di questa città, esprimono la tolleranza, esprimono la consapevolezza e l’accoglienza del diverso, cosa che c’è sempre stata, malgrado Napoli abbia tanti difetti. Io credo che Bambinella rappresenti bene qualcosa che questa città ha sempre conservato, ovvero la figura di chi accoglie le confidenze e in qualche modo le manda attorno, le condivide, le spamma, per usare un termine moderno; direi dunque che Bambinella è un rappresentante di questo trait d’union, che esiste in questa città e non altrove per la convivenza sovrapposta di classi sociali diverse su un territorio molto ristretto”.
- Arriviamo a “I Bastardi di Pizzofalcone”, altro grande successo da cui è stata tratta una serie televisiva che mette in scena una napoletanità non stereotipata e di maniera, ma verace e corposa, mostrando luci ed ombre di questa grande città attraverso una sceneggiatura attenta, che rispetta una scrittura coerente e realista. Non è “Gomorra”, non è truce e violentissima, la scena in cui si muovono i personaggi, non c’è splatter ma nemmeno ipocrisia e finto buonismo. Non trova?
“I Bastardi di Pizzofalcone rappresentano una visione più orizzontale e contemporanea, fatalmente dunque va meno a fondo in quella che è la natura della città; rappresentano la città contemporanea, una città del terzo millennio, una città con larghe sacche di miseria e di povertà, unite a grandi livelli di ricchezza; Napoli più che altrove nel Paese rappresenta una gran parte della fortuna nelle mani di una quota minima della popolazione; chiaramente questo in un luogo in cui, come dicevamo prima, tutto è sovrapposto, quindi un ipotetico commissariato di Pizzofalcone che raccoglie nell’arco di un kilometro i Quartieri Spagnoli, il Pallonetto di Santa Lucia, Chiaia, Piazza dei Martiri e il Lungomare, ingloba un contatto tra classi sociali così diverse e il crimine è un aspetto consequenziale di tutte queste diversità. I Bastardi di Pizzofalcone sono stati necessari proprio a questo: innanzitutto a mostrare una pluralità di lesioni, una pluralità di ferite, attraverso i componenti del commissariato di Pizzofalcone, ma anche a raccontare il contatto così stridente e così costantemente violento tra classi sociali profondamente lontane le une dalle altre”.
- Maurizio De Giovanni è anche un appassionato tifoso del Napoli: lei ritiene che esista un’epica del calcio e che questo si presti a una narrazione vera e propria, come riteneva il grande giornalista Gianni Brera? Maradona come “El Cid Campeador?”
“Maradona è paragonabile a mio avviso a tutti i grandi eroi popolari, è paragonabile a Masaniello, a Che Guevara, al Cid ma anche al Don Chisciotte, a tutti i grandi eroi che si sono fatti carico di tanti ideali, di tanti pensieri sperando di cambiare un mondo che invece non cambia mai. Il calcio è due cose: è sport, per cui esiste l’epica del calcio, esiste l’epica del campo da gioco come in tutti gli sport, ma è anche un grandissimo business, e come tale è inquinato dalla logica del guadagno. Vi è sempre stata tale logica, ma questo è il tempo in cui essa predomina: figure come quelle dei procuratori, dei fondi di investimento che acquistano le società, inquinano nettamente quella che è la competitività sana e normale di ciò che dovrebbe essere lo sport. Il calcio oggi dello sport possiede solo l’aspetto, ma è tutto fuorché sport”.
- Mina Settembre, altra serie RAI tratta dai suoi romanzi è quello che si definisce una “Dramedy”, un connubio tra atmosfere drammatiche e da commedia anche se propende più per il secondo aspetto e in cui la protagonista Mina è un’assistente sociale che prende molto sul serio il suo lavoro. Una piccola rivoluzione in quanto raramente queste operatrici del sociale hanno svolto ruoli di primo piano. Mina non è un’eroina tragica e nemmeno una donna eccezionale; è una figura fragile e forte insieme, costretta a vivere situazioni complicate e relazioni tormentate. Il suo lavoro lo svolge bene e con empatia senza azioni clamorose, ma cercando di aiutare i più deboli che a Napoli sono tanti. Crede che questo equilibrio tra dramma e commedia sia la miscela giusta un po’ come Dionisiaco e Apollineo nella tragedia greca?
“Mina possiede l’eroismo di chi svolge bene il suo lavoro, in situazioni difficili e complicate; ella si fa carico personalmente, emotivamente di coloro che assiste, ed al termine della giornata non dimentica i compiti che le spettano; questo perché possiede una sensibilità sociale estrema, fuori dal comune. Credo che sia da sottolineare, dopo due anni di pandemia, come esista gente nel sanitario, nel sociale, che si sia fatta portatrice di una situazione estremamente complicata, di grande difficoltà, ed il modo in cui questa situazione sia stata gestita con coinvolgimento superiore rispetto ad altri; sono contentissimo di raccontare Mina Settembre che è un’assistente sociale, così come sarei altrettanto contento di raccontare un infermiere o un medico, in un periodo in cui le strutture sono tutt’altro che sufficienti a raccontare questo tipo di lavoro”.
- Lei nonostante il successo ed il fatto di essere oramai un autore conosciutissimo e letto ovunque è rimasto un uomo semplice che risponde a tutti, si fa fotografare, gentile e disponibile con le persone. È un tratto caratteriale o dipende dal fatto di essere napoletano in quanto chi nasce all’ombra del Vesuvio ha una giovialità marcata e una propensione maggiore ai rapporti umani?
“Io sono convinto che uno scrittore sia qualcuno che racconta storie, non vedo nulla di straordinario, né di difficile, né di complicato, né di particolarmente meritevole in questo. Il fatto di scrivere storie che aiutino le persone a trascorrere qualche ora altrove, perché scrivere serve a questo sa, a condurre la gente da un’altra parte, non è rivoluzionario: nessuno di noi ha trovato la cura per il tumore, nessuno di noi ha inventato il motore ad aria, nessuno di noi ha trovato l’alimento buono che non fa ingrassare; siamo semplicemente persone che inventano storie. Mi soprende più che altro l’atteggiamento supponente da parte di altri autori, ma io credo di comportarmi in maniera normale; negarmi ad un sorriso, ad una carezza, ad un applauso, ad un saluto affettuoso per strada o ad una bella intervista sarebbe autolesionista, infatti mi appare alquanto misterioso il motivo per cui alcuni si comportino come se chissà che tipo di grande mente abbiano. Le ripeto, noi inventiamo storie; io sono esattamente lo stesso di quando cominciai a scrivere quindici anni fa, anzi peggio, perché quindici anni fa riuscivo a vedere senza occhiali, ero più giovane ed inevitabilmente più allegro. Non comprendo dunque la ragione per cui dovrei essere meno umile adesso rispetto al passato“.

- “I Bastardi di Pizzofalcone” e “Il commissario Ricciardi”, due epoche diametralmente opposte, il primo ambientato in epoca post-moderna, il secondo ai tempi del fascismo: ritiene che parlare della contemporaneità sia più facile rispetto ad anni da noi così lontani?
“Questa è una domanda interessante: io non saprei dirle; tuttavia credo che raccontare la contemporaneità sia più semplice dal punto di vista dei dettagli, perché non occorre documentarsi, basta guardarsi attorno; non è necessario entrare nel merito delle situazioni, non bisogna vestirsi di una scala di valori diversa. Negli anni di Ricciardi se si rientrava a casa trovando la propria moglie in compagnia di un altro uomo, entrambi venivano uccisi e neanche si finiva in galera; partire da questo presupposto significa scrivere secondo un altro criterio; ai tempi di Ricciardi la quasi totalità delle persone si recava a messa, quasi ogni giorno; i lavoratori si recavano in chiesa la mattina alle sei per andare a lavorare alle otto, cose che oggi appaiono incredibili. Bisogna ricordare tutto ciò quando si comincia a scrivere. E’ pur vero però che l’epoca storica passata è interpretabile facilmente: è lì ferma, chiusa, è avvenuta. Nell’epoca post moderna tutto accade dalla sera alla mattina, non siamo in grado di stabilirlo; le faccio subito un esempio: se nel febbraio 2020 lei avesse dovuto interpretare un’influenza sulla base di se stessa, avrebbe raccontato un’influenza; a distanza di due anni come rilegge l’influenza del febbraio 2020? Come si interpreterebbe la crisi Russia-Ucraina che stiamo vivendo oggi fra tre anni? Alla luce di una guerra avvenuta, oppure di una guerra che non è avvenuta e di cui non ricordiamo neppure ciò che è successo? E’ facile oggi scovare ciò che era notevole negli anni Trenta, ciò che portò conseguenze rispetto a ciò che non le portò. Lei mi chiede se sia più facile o più difficile: dipende da ciò che si racconta; dal punto di vista della quotidianità è sicuramente più facile raccontare il contemporaneo, mentre dal punto di vista della rilevanza degli eventi è più facile raccontare gli anni Trenta, perché sappiamo ciò che è successo dopo“.
- Lei pur essendo uno scrittore tra noir e giallista tratteggia molto bene i personaggi e la loro anima, ad esempio Bambinella, ed il suo lavoro ricorda commediografo Terenzio che dava risalto all’introspezione psicologica dei personaggi delle sue opere: si ritiene anche un grande affabulatore per quanto riguarda l’amicizia e l’amore?
“Io credo che quando si scrive un romanzo si scriva sempre d’amore e di amicizia, non riesco ad immaginare come si possa scrivere di rapporti umani senza parlare di amore e di amicizia; questi ultimi sono aspetti fondamentali della vita degli esseri umani, dunque se si parla di persone non possiamo eluderli. Lei citava Terenzio, il quale recitava “Niente di ciò che è umano, ritengo estraneo a me”; è impossibile immaginare di parlare di delitto senza parlare di amore, il delitto passionale è una perversione dell’amore o dell’amicizia, o del fidarsi di qualcuno, o del dipendere da qualcuno. Sono tutti nessi molto stretti con l’amore, quindi tutti coloro che raccontano storie umane devono raccontare d’amore”.
- La storia dei Bastardi di Pizzofalcone è storia di uomini e donne, di solitudini, di dolori e vicende personali. Tanti individui diversi eppure complementari che nella eterogeneità del gruppo, nella fattispecie un commissariato in disarmo, trovano la forza per vincere. È così anche nella vita? Le differenze rafforzano, le individualità trasformate possono raggiungere traguardi difficili? Le vite di ciascuno di noi con tutto il loro carico di storia possono intrecciarsi con le altrui e fare blocco? Siamo in un’epoca che esalta l’individualismo e la prestazione singola e in questo contesto ha ancora senso fare squadra, cercare di raggiungere il bene comune?
“Io credo che abbia più senso unirsi nel momento in cui prevalgono la solitudine e l’individualismo che quando non ci sono; non esiste salvarsi da soli, ci si salva soltanto insieme, ed è anche vero che all’interno di un gruppo la diversità è una ricchezza, anche se questo purtroppo è difficile da comprendere, perché le diversità vengono viste come una situazione di inferiorità; il proliferare di episodi di razzismo, di violenza, di maltrattamenti di persone che vivono, in primis le donne, in una condizione di difficoltà, dimostra che mai come oggi questo stia accadendo, e che mai come oggi le diversità devono essere integrate, riconosciute. Napoli in questo è estremamente emblematica, accoglie le diversità, come tutte le città con i porti le assume, le ingloba, le fa sue; abbiamo un vocabolario ricco di termini stranieri, abbiamo un menù grondante di piatti stranieri, perché noi siamo così: prendiamo ciò che proviene dall’esterno, convinti che possa migliorarci, e lo trattiamo, lo integriamo, lo digeriamo. Così non accade in moltissimi altri luoghi: il Nord del nostro Paese manifesta continuamente episodi di intolleranza, rinunciando ad una ricchezza della polifonia, che a mio avviso è suicida; trovo che noi dobbiamo innanzitutto integrare le diversità, per farne una ricchezza”.
- Napoli è città multiforme, poliedrica, anarchica e con mille sfaccettature, dove luci ed ombre si alternano nella sua eterna Piedigrotta. Napoli ha tanti volti ed è luogo eracliteo in cui il contrario trova forza nella sua affermazione. Lei pensa che questi particolari la rendano sfondo ideale per le sue storie e che esse trovino linfa vitale nei suoi vicoli, nei suoi palazzi, nelle sue chiese?
“Napoli mi racconta storie costantemente: se non fossi stato napoletano, l’ho dichiarato più volte, non sarei mai stato uno scrittore. Io scrivo perché sono napoletano; moltissimi miei colleghi rifiutano questa etichetta, rivelandosene infastiditi; eppure, perché non sento parlare di scrittori bolognesi o di scrittori milanesi, ma sento sempre e solo parlare di scrittori napoletani? La verità è che Napoli è peculiare, è diversa da tutte le altre città, perché in possesso di una identità specifica, fortemente connotata: i ragazzi di Posillipo e i ragazzi di Ponticelli possono tranquillamente parlare tra loro, anche se hanno una situazione censitaria diversa; essi hanno una cultura fortemente condivisa, un’identità riconoscibile, e questo rende Napoli diversa da ogni altro posto. Socialmente difficilissima, molto complicata, chi vive a Napoli può vivere ovunque, come Krypton, dotato di superpoteri; se hai vissuto a Napoli puoi andare da qualsiasi altra parte e vivere con assoluta tranquillità integrandoti ovunque; Napoli è unica, è specifica, perciò molto interessante da raccontare ed interessante da leggere; il fatto che la narrativa, la musica, la danza napoletane siano così amate, come il teatro napoletano, significa che tali arti possono essere proposte dovunque proprio in quanto Napoli è un luogo diverso dagli altri”.
- Il romanzo giallo si basa su un’interattività del lettore: colui che legge si sente chiamato in causa per cercare di risolvere l’enigma di decodificare i messaggi cifrati che l’autore dissemina tra le pagine. Oramai è da considerarsi un genere letterario a tutti gli effetti, se pensiamo che l’antesignano di questo tipo di letteratura è addirittura Sofocle con il suo “Edipo” che è una vera e propria storia noir: Edipo scopre un misterioso omicidio e si autoriconosce colpevole. La più prestigiosa collana di romanzi polizieschi francese ne ha appena pubblicato una nuova versione romanzata. Il giallo italiano in particolare è pregno di buona letteratura, basti pensare ad Eco, Gadda, Sciascia, Camilleri. Lei crede che l’antica diffidenza verso questa forma artistica e tutti i pregiudizi che l’hanno accompagnata definendola forma narrativa popolare siano superati? Io ritengo di si e credo di aver scoperto il colpevole che è scrittore profondo, attento a scavare nell’animo dei personaggi che parla di sentimenti forti come amicizia, amore, odio e rancori mentre tesse la trama del racconto. Il suo nome: MAURIZIO DE GIOVANNI
“Io credo che tutti i pregiudizi siano stupidi, essendo PRE-GIUDIZI, ovvero precedenti all’accoglimento degli elementi necessari per formare un giudizio; pertanto, non esiste un pregiudizio positivo, tutti i pregiudizi sono negativi per loro definizione; tra questi, quello massimamente ottuso definito “Letteratura nera”. La letteratura nera ha degli scrittori al suo interno di straordinaria rilevanza e di grande capacità: escludere Simenon dai primi tre scrittori del Novecento è un atteggiamento sciocco, e chi assume questo tipo di giudizio non merita un contraddittorio, come ovvio che sia. Nella realtà dei fatti il romanzo nero italiano conosce una stagione straordinaria, in cui ogni regione ha perlomeno un grande scrittore di riferimento che racconta quella regione stessa: ne esce un ritratto realistico e composito del Paese che nessun altro tipo di letteratura riesce a fornire. La Puglia di Carofiglio e di Carrisi, la Sicilia di Camilleri e di Cristina Cassar Scalia, il Lazio di Giancarlo De Cataldo e di Roberto Costantini, la Toscana di Malvaldi, l’Emilia Romagna di Carlo Lucarelli e Valerio Varesi, il Nordest di Carlotto, la Milano di Biondillo e Dazieri, potrei continuare per ogni regione fornendole sette, otto nomi di autori che raccontano queste storie. Le scritture sono le più diverse, io non capisco come sia possibile preservare questo pregiudizio, ma se la critica ritiene di alimentarlo, va bene a tutti noi; eppure posso garantirle che non vi è una settimana delle cinquantadue dell’anno in cui lei tra i primi dieci libri in classifica non trova almeno tre scrittori di genere: ciò significa che il nostro perno letterario viene riscosso con tranquillità ogni settimana, per cui non abbiamo nulla da invidiare a nessun’altro e siamo molto contenti che sia così”.
- Se per assurdo potesse uscire a cena e conversare con un grande autore di gialli scomparso chi sceglierebbe tra Simenon, Scerbanenco e Andrea Camilleri?
“Io ho avuto la fortuna di essere amico di Andrea Camilleri, dunque a cena ci sono stato molte volte, e le posso garantire che l’aneddotica e la narrativa di quell’uomo, anche senza scrivere, era talmente sconfinata che se io potessi procurarmi un’altra sera con lui lo farei volentieri; con Simenon sicuramente mi divertirei di più, perché egli era circondato da un parterre di donne assolutamente incredibile, per cui avremmo avuto una molto piacevole compagnia che io normalmente non mi posso permettere, dunque avrei delegato a lui di procurare il resto dei commensali”. (Ridiamo entrambi, l’ironia di Maurizio è qualcosa di straordinario, ndr).
- Le faccio un’ultima domanda: il suo ultimo libro “L’equazione del cuore”, parla d’amore: cos’è l’amore per Maurizio De Giovanni?
“L’amore è qualcosa di istintivo e di meraviglioso, non ha nulla di razionale, e come tale è una bellissima evasione da chi è abituato a usare la testa: mi piace tantissimo l’amore ma ne sono terrorizzato, perché l’amore è la forza rivoluzionaria che ti spinge a fare cose che mai avresti pensato di fare; la gelosia, l’ossessione, il possesso, sono sentimenti che esso comporta e che purtroppo travolgono e portano altrove. Se potessi eliminare l’amore dalla mia vita probabilmente vivrei meglio, però perderei l’unica ipotesi di felicità che esiste nel mondo”.
“A Francesca, veramente straordinaria. Con dolcezza. Maurizio“. Il congedo umano e letterario più bello che un intellettuale potesse concedermi.
Grazie di cuore, Maurizio; grazie per aver contribuito ad un arricchimento proficuo e costante del mio animo e di quello di tutti coloro che decideranno di leggere questo articolo.