
Addio al poeta delle piccole cose.
Francesco Scarabicchi è scomparso all’età di settant’anni, dopo una lunga malattia, nella sua casa di Ancona: poeta e scrittore “di nicchia”, si era dedicato alla traduzione di Garcia Lorca e Machado, occupandosi inoltre di arti figurative. “Il più grande poeta italiano vivente“, così lo ha definito lo psicanalista Massimo Recalcati, ideatore del festival ‘Kum’, al quale Scarabicchi partecipò due volte. Ed è oltremodo vero che quando muore un poeta muore una parte di noi.
Classe 1951, tra le sue più importanti opere rientrano “Il prato bianco“, “L’esperienza della neve“, “La porta murata“, “Lettere al figlio“. Risalente al 2002 la collaborazione con la rivista letteraria “Nostro lunedì”. Emblematica la sua amicizia con lo scultore Valerio Trubbiani. Tra i riconoscimenti il Premio Nazionale Letterario Pisa, sezione Poesia.
Un uomo sincero, di immensa onestà intellettuale, che con le sue opere ha dato lustro alla città di Ancona, che amava e voleva sempre migliore, e su cui ha scritto pagine bellissime. La sua poesia è patrimonio della storia della letteratura, e vi resterà per sempre. Francesco giace nei suoi versi; nei manoscritti che teneva fra le mani incerte, porgendoli alle persone fidate e attendendo fiducioso e consapevole un cenno di assenso mentre lo leggevano. Un pugno di amici leali ed innamorati; un desiderio ineluttabile rivolto alla parola; una famiglia alla quale era legato oltre misura. Un individuo capace di sostanza e bellezza, di severità e mitezza. La poesia lo accompagnava in ogni istante della giornata.
Affermava che esisteva un momento nel quale gli incontri, le occasioni, le storie, attendevano e chiedevano d’essere comprese e riconosciute. Una canzone di George Brassens, tradotta e interpretata da Fabrizio De André, parla delle “belle passanti” (Les amoureux qui s’bécotent sur les bancs publics): così il poeta marchigiano concepiva il suo percorso d’amore, un viaggio fra le creature che sono state passione di un’ora o di sempre, nel plurale disegno del destino. Tra un addio e un risveglio, tra la luce quotidiana e un’imprevedibile sosta, i nomi non si perdono, sebbene sia l’amore ad essere amato.
Scarabicchi ammetteva inoltre che la poesia gli apparteneva sin da quando egli ne aveva memoria: ammaliante la scrittura presente nei libri, così concisa e scorrevole tra bianco e bianco. Durante l’adolescenza la scoperta della metrica, delle piccole terzine delle onde che scandivano la riva della costa Adriatica. A pervaderlo, dopo Dante, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Cesare Pavese, Sandro Penna, Giorgio Caproni, Pier Paolo Pasolini. Fra gli autori stranieri, senza dubbio, Villon, Baudelaire, Herman Melville, Garcia Lorca.
Occupato da ciò che, istante per istante, ci lascia, si perde, scompare, dall’impossibile definizione della domanda sulla vita. Un infinito interrogatorio, la sua esistenza, un perenne cammino sul senso della storia e sulla concezione umana.
Francesco scriveva per coltivare l’utopia che, attraverso la forma verticale dei versi, si potesse esorcizzare l’attimo che avrebbe condotto verso l’ignoto. Scriveva nel tentativo di preservare un frammento del tempo per racchiuderlo nel calco della parola. Non amava stimare la poesia secondo le generazioni: a suo avviso vi erano pessimi libri di uomini veterani ed eccellenti libri di esordienti. Non dispensava consigli, piuttosto invitava i giovani poeti a dedicarsi al loro universo d’esperienza, a scegliere la voce che lo testimoniava, a consegnarsi allo stile della forma adatta ed essergli fedeli perché fossero, per quanto possibile, memorabili e riconoscibili.
Se la poesia è la domanda sul senso dell’esistere in una forma verticale, quella domanda non muta anche se fuori nevica o il sole bacia la terra. E’ necessario non arrendersi, proseguire, essere al servizio della parola. Francesco credeva che avessimo uno svantaggio reso in realtà privilegio: essere figli di una lingua minore in Italia e in Europa ed affidare a questa lingua minore tutta la dignità del dire cercando di cogliere l’imperitura bellezza e la vocazione a toccare le profonde corde interiori o della mente. Una vera e propria palingenesi umanistica.
La sua poesia “Engagée” mancherà a chi ha avuto il privilegio di conoscerlo ed amarlo.
Ti sia lieve la vita, Francesco.