
Non avevo mai avuto il coraggio di guardare interviste rilasciate da Ezio Bosso prima della sua malattia, perché ero consapevole di possedere una sensibilità troppo acuta da non lasciarmi coinvolgere dalle lacrime; oggi per la prima volta ho sfidato il mio cuore, ho trovato la forza di piangere più forte, e sono ancora più arrabbiata nei confronti della vita.
Ezio Bosso era bello come il sole, aveva lo sguardo timido e delicato dei poeti greci, i capelli lunghetti congiunti alla barba che gli conferivano un fascino da Lord d’altri tempi; possedeva una cultura umile e brillante, un’empatia che avrebbe fatto innamorare qualsiasi essere umano.
Nato a Torino nel 1971, si avvicinò alla musica all’età di quattro anni, intravedendone una palingenesi legata alle sue origini: il padre, infatti, era un operaio, e ad Ezio venne spesso detto che i figli degli operai fossero destinati a divenire a loro volta operai, mentre i figli dei musicisti sarebbero stati gli unici a potersi dedicare alla nobile arte sinfonica; fu una delle offese più crude e difficili da accettare per Ezio, ma fu anche la sua occasione di riscatto per dimostrare al mondo che la passione ed il talento vengono sempre premiati. A sedici anni cominciò a frequentare le maggiori orchestre europee, esordendo come solista in Francia. Fu l’incontro con Ludwig Streicher a rivelarsi emblematico ai fini della sua carriera artistica.
Nel 2011 subì un intervento al cervello necessario per l’asportazione di un tumore, e subito dopo venne colpito da una sindrome autoimmune neuropatica. Inizialmente le patologie non gli impedirono di suonare, dirigere, comporre. In seguito però il peggioramento della malattia neurodegenerativa, erroneamente definita dai medici SLA, gli compromise l’uso degli arti e delle mani, costringendolo nel settembre 2019 ad abbandonare l’attività di pianista. “Se mi volete bene, evitate di chiedermi di mettermi al pianoforte e suonare. Non sapete la sofferenza che mi provoca questo, perché non posso, ho due dita che non rispondono più bene e non posso dare alla musica abbastanza. La bacchetta è il mio potere forte. La maschera che nasconde il dolore“, amava ribadire Ezio, con un velo di malinconia verso il passato e di eterna speranza per il futuro.
Era una malattia infima ed oscura, quella che aveva colpito Ezio, una malattia che imprigiona l’anima nel corpo; ciononostante egli faceva vanto della sua “Diversità“, reputandola straordinaria ed ostentandola senza vergogna alcuna. Una diversità rara, non comune, perché Ezio era una persona rara. Svariate sono state le ipotesi avanzate dai medici per definire il suo dramma, dapprima identificato con la SLA, data la sintomatologia. Eppure egli non si è mai arreso, perseverando nel suo amore per la musica classica; è proprio vero che quest’ultima unisce gli animi, e solo chi l’apprezza davvero riesce ad incantarsi dinanzi a persone del genere, a non fermarsi alla mediocrità delle cose. E lui non è rimasto in superficie, lottando fino allo strenuo per avvicinare il pubblico alla musica.
Non ho avuto il privilegio di incontrarti, Ezio, ma nel profondo ti ho sempre conosciuto: è bastato ascoltare i tuoi concerti, i tuoi discorsi, per farmi vacillare e per sentirmi legata alla tua indole da un filo invisibile; io, che da piccola suonavo il pianoforte accarezzando i tasti con le dita; io, che se potessi tornare indietro vorrei parlarti e condividere con te i medesimi interessi. La tua morte mi addolora indicibilmente, e so che d’ora in avanti saremo tutti più soli.
Ci vuole audacia nel vivere con dignità, nell’accettare la fine triste della partita, benché essa non sia affatto dignitosa. Tu hai saputo fare alla perfezione entrambe le cose.
Ti sia lieve la terra, angelo musicante.