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Perché abbiamo bisogno di ricostruire i partiti. Per rifondare la coscienza di appartenere, e scegliere e chi appartenere. Perché al di là della corruzione, delle infiltrazioni mafiose e delle clientele piaga che purtroppo li stringe tutti in un grande spasimo, l’Italia, come una parte dell’Europa, sente la crisi del sistema partitico. Non è una novità ma una triste costatazione. A questo punto per capire la radice della sconfitta, è bene distinguere cos’è un partito e cosa invece non lo sarà mai, ovvero un movimento. Perché se un partito oggi fa fatica a dire son vivo, il secondo accoglie proseliti ma li perde altrettanto quando manca di continuità e progetti e di una lungimiranza ideologica. Cosa rende allora esclusivo un partito e non associabile al movimento, per esempio, al M5S?
La prima cosa è la concezione di democrazia dal basso che un movimento rivendica, non sempre coerente. Se si pensa infatti al Movimento Cinque Stelle e a Beppe Grillo, le metodologie degli approcci di piazza non sono esattamente un esempio di virtù e uguaglianza, così come le molte dichiarazioni del leader mancano di una assertività quando scadono nell’ira verbale del momento. C’è da dire però che c’è una lezione che si può imparare dal civismo o da un movimento: il microfono affermativamente lascia parlare le persone e non i personaggi.
Gli interessi che il movimento persegue sono parziali, orientati, finalistici. Orientati allo scopo, al risultato di porre rimedio ad uno o più problemi. E’ una sorta di “sindacato” allargato, che si rivolge a più fasce sociali e non tiene conto del tuo reddito, di che lavoro fai o dei tuoi sogni. L’essenziale è che tu sia arrabbiato, e che abbia qualcosa di giusto da rivendicare. E come in groviglio di bisogni, convoglia l’anti-politica mutando l’insoddisfazione generale di una parte della comunità in operatività e reazione. Ed è un flusso che non fa del male, ma giova allo spirito di partecipazione e di rivolta. Se non peccasse a volte di presunzione. E’ lì che scade e perde. Se un movimento vince alle elezioni amministrative o politiche, dovrebbe, visto che è costretto a scendere a patti con i potere dei partiti e dell’alta politica, mutare la sua organizzazione e strutturarsi in maniera da poter costruirsi come antitesi valida e duratura. Altrimenti da solo, nella fiumana del civismo, finirà per perire e non rialzarsi più. E di questi movimenti, dell’attivismo assordante, magari resterà il vigore del leader, l’esuberanza con qualche risultato ma verrà meno il marchio del gruppo che educa a seminare non per una generazione ma per le generazioni che verranno.
Il partito si colloca più in alto, e non i politici o i membri del partito (quelli lasciamoli fuori), in quanto difesa di una serie di ideali, progetti, disegni tendenti ad una unità di intenti ed azioni politiche. In più ha una storia, una bandiera e una connotazione riconoscibile. Almeno, questo è ciò che accadeva in passato. Oggi sappiamo bene quanto il PD o Forza Italia siano lontani dall’essere costruttivi per il paese, impegnati a cercare le motivazioni del fallimento. Alle amministrative due municipi come Roma, Torino passano al M5S: è una debacle che nessuno si aspettava, tranne gli elettori, o meglio che i partiti scongiuravano con le dita incrociate dietro la schiena.
Proprio perché sono morti, allora dovremmo combattere per costruirne di nuovi: non serve cambiare il nome ma siglarne la fine con il divorzio da determinati rappresentanti politici, per cancellare il passato prossimo e premere l’accelleratore sul futuro. Ogni partito oggi dovrebbe guardarsi allo specchio, fare i conti e ricominciare. Ma se la gente comune, i cittadini non entrano nei partiti per salvarli dal peggio, dalla melma delle implicazioni personali e degli opportunismi, quello spirito di lotta, l’idealità con i quali sono stati generati, illo tempore, non li vedrà più rinascere. Uno scenario più triste è ipotizzabile: l’implosione nella peggiore delle anarchie.