
New FIFA president Gianni Infantino reacts after winning the FIFA presidential election during the extraordinary FIFA Congress in Zurich on February 26, 2016. AFP PHOTO / FABRICE COFFRINI / AFP / FABRICE COFFRINI (Photo credit should read FABRICE COFFRINI/AFP/Getty Images)
Dopo diciassette anni di regno incontrastato e incontrastabile, Joseph Blatter non è più il presidente della FIFA, l’organismo intercontinentale che comanda le cose del calcio. In verità l’ottantenne svizzero non era ricandidato alla presidenza anche perché, tecnicamente, presidente non era più già dall’ottobre dello scorso anno, sospeso dal comitato etico della FIFA per l’indagine che lo vedeva coinvolto insieme a diversi altri papaveri del governo del pallone, tra cui Michel Platini. Blatter e Platini, nel dicembre del 2015, sono stati condannati dal comitato etico a otto anni di squalifica, e se per Blatter la squalifica non ha fatto altro che anticiparne di qualche mese il pensionamento già deciso, per il francese suo delfino invece la squalifica ha rappresentato la fine anticipata e forzata della carriera dirigenziale FIFA. Platini infatti, proprio perché squalificato, non ha voluto candidarsi alle nuove elezioni. Ci aveva anche provato “le roi”, forse per esorcizzare le accuse a suo carico, a presentare la sua candidatura ufficiale a fine luglio 2015, quando Blatter aveva da pochi giorni annunciato la sua volontà di farsi da parte lasciando campo libero al suo successore designato. Ovviamente quel campo non era più libero, Platini lo sapeva benissimo, ma sperava ancora nella clemenza dell’organo giudicante. Che invece clemente non è stato, come non tanto clemente è stata la commissione d’appello della FIFA a cui i due, Blatter e Platini, si sono rivolti in secondo grado, e che ha ridotto la squalifica di “soli” due anni, da otto a sei, così non lasciando a Platini molti margini di speranza per un prossimo ritorno nella politicanza del pallone. Platini, il linea teorica, avrebbe potuto candidarsi anche da squalificato, ma sarebbe stata una candidatura assai inopportuna e potenzialmente destabilizzante visto che, in caso di vittoria di Platini, la FIFA si sarebbe ritrovata con un presidente appena eletto e già squalificato. Insomma un eventuale gran casino nonché un ennesimo disastro di immagine per la storica federazione fondata a Parigi nel 1904.
Fuori Platini, la corsa alla presidenza è stata vinta da un candidato molto vicino a Platini, suo stretto collaboratore, suo segretario generale durante la presidenza UEFA, suo facente funzioni dopo la sospensione, suo amico. Gianni Infantino è il nuovo presidente della FIFA, federazione internazionale del gioco della pedata eppure uno dei maggiori centri di potere e di denari al mondo. Manovratrice di uomini politici e di affari colossali, sempre chiacchierata dalla stampa e dagli addetti ai lavori, mai veramente analizzata nei suoi torbidi meccanismi di (dis)funzionamento in quanto entità sovranazionale e pertanto considerata di tutti e di nessuno, finalmente scoperchiata nelle sue lucrose attività criminali da un’indagine liberatoria non a caso condotta da inquirenti internazionali (Interpol).
Gianni Infantino è per metà italiano (di Reggio Calabria, dove sono nati i genitori) e per metà svizzero (di Briga-Glis, paesone del Canton Vallese dove è nato lui), è un quarantaseienne pelato, avvocato specializzato in diritto sportivo che ha iniziato a lavorare per l’UEFA nel 2000. Brillante studioso della materia, parlante diverse lingue (cinque dicono le biografie: tedesco, italiano, inglese, francese spagnolo e arabo), non ha impiegato molto tempo per fare carriera all’interno del massimo organismo del calcio europeo; promosso alla direzione della divisione “Affari Legali e Licenze per club” nel 2004, alla vice segreteria generale nel 2007, alle segreteria generale nel 2009, alla reggenza della presidenza nel 2015. Stante la caduta in disgrazia di Platini, Infantino si è trovato ad essere il candidato di punta del ramo europeo della FIFA. L’altro europeo candidato era il diplomatico francese Jerome Champagne, già “ministro degli esteri” della FIFA fra il 2007 e il 2010, che nella seconda votazione, quella decisiva e valida a maggioranza semplice (la prima prevedeva una maggioranza qualificata), non ha preso nemmeno un voto. Centoquindici i voti presi da Infantino, undici in più di quelli strettamente necessari per vincere. Battuto il favorito della vigilia, lo sceicco Al-Khalifa, che non è andato oltre gli ottantotto voti. Quattro voti per il principe giordano Ali Al Hussein. Un quinto candidato, il sudafricano Tokyo Sexwale, in gioventù attivista anti-apartheid e nella maturità imprenditore non senza ombre, si è ritirato poco prima delle elezioni avendo appurato che nemmeno i delegati africani l’avrebbero votato.
Conoscendo le logiche della FIFA e dei suoi membri, non meraviglia che il candidato con il programma più democratico, il francese Champagne, sia arrivato ultimo. Riforma del comitato esecutivo della FIFA, divisione fra politica e amministrazione, redistribuzione delle risorse alle federazioni più povere, costruzione di strutture sportive nei Paesi poveri erano i punti salienti di Champagne, per cui si erano spesi Pelé e George Weah, ma non la federcalcio francese. Praticamente solo Champagne, tuttavia il suo manifesto, “Hope for football”, resta la migliore cosa di questa elezione.
Il principe Ali Al Hussein, figlio di re Hussein di Giordania e già vicepresidente FIFA, proponeva di aumentare il numero delle nazionali partecipanti al Mondiale, di conferire maggiori poteri alle federazioni nazionali e di creare all’interno della FIFA un comitato di saggi presieduto nientemeno che da Kofi Annan (ex segretario generale ONU). Poche speranze aveva il principe Hussein, appoggiato da Diego Maradona ma abbandonato dalle federazioni asiatiche alla fine convergenti su Al-Khalifa. Forse l’idea dei saggi con a capo Kofi Annan (chissà se Annan era al corrente della proposta di Hussein…) voleva essere una provocazione contro lo sceicco Al-Khalifa, da più parti accusato di violazione dei diritti umani nella “gestione” di una rivolta nel suo Paese.
Lo sceicco Al-Khalifa, discendente diretto della famiglia reale del Bahrein, ricchissimo di petrodollari e fedelissimo di Blatter, proponeva una riorganizzazione della FIFA in una parte sportiva e in una finanziario-commerciale, l’aumento del numero delle donne nel Comitato Esecutivo (quote rosa? Da un arabo sunnita…), riduzione dei costi e revisione (in su) del numero delle squadre partecipanti al Mondiale. Anche la sua sconfitta a ben riflettere non meraviglia. La sua vittoria infatti, al netto del programma di facciata, avrebbe significato soprattutto più potere al Medioriente affaristico-pallonaro, ma senza Blatter la geopolitica affaristico-pallonara dovrà subire un rivisitazione.
Gianni Infantino, appoggiato in blocco dalla UEFA e da gran parte del Sudamerica, cioè dalle federazioni di maggiore tradizione, portava un programma molto concretamente europeo che prevedeva la sostituzione del Comitato Esecutivo con un Consiglio, un ottimo foraggiamento annuale alle federazioni nazionali e alle confederazioni, l’aumento a quaranta del numero delle nazionali partecipanti al Mondiale. Dicasi quaranta!…
Sembrerebbe che a far vincere Infantino sia stata soprattutto la federazione statunitense, molto invisa alla vecchia dirigenza FIFA per via dell’indagine clamorosa su di essa ad opera della FBI, e molto attiva nell’attività di spostamento voti fra i delegati CONCACAF (America Centrale) e CONMEBOL (America del Sud), praticamente tutti convergenti sull’italo-svizzero. Ma anche gli africani e gli asiatici hanno contribuito, non votando compatti lo sceicco ma preferendo, diversi, Infantino e la sua realpolitik.
Infantino neo-presidente si è detto emozionato, lusingato, fiero di essere italiano. Ha ringraziato la FIGC e l’ineffabile ragionier Tavecchio che l’hanno fortemente sostenuto nella sua campagna elettorale. Ha dedicato la vittoria alla famiglia, al padre che gli ha insegnato i valori e bla bla bla…
Infantino, archiviate le tattiche elettorali, dovrà dimostrare coi fatti di essere un presidente diverso dal predecessore, capace di far cambiare l’aria nella FIFA dando una salvifica rinfrescata a quella maleodorante degli scandali, delle tangenti, dei voti e dei mondiali comprati che ha appestato l’ultimo ventennio. Non facile.