
Trentaduesima puntata di rubrica instabile e probabilmente ultima di stagione pedatoria. Puntata solo sul Napoli.
Perché l’ultimo capitolo del romanzo di campionato dell’Avellino è stato troppo crudele per raccontarlo adesso, dopo poche ore dall’ingiustizia, troppo maledetto per farne cronaca banale e dover rivivere nelle viscere quel senso di rabbia che prende quando una squadra, la tua squadra, perde senza perdere, vince senza vincere, si erge magnifica contro tutte le malesorti del pallone che senti accanirsi contro di lei eppure non le basta. Perché il gioco del calcio così è. È un gioco, ma quando va com’è andata ieri alla mia squadra ti lascia dentro un cazzo di senso di rabbia, che il giorno dopo diventa senso di vuoto. Quel vuoto amaro di quando pensi a quanto sarebbe potuto essere bello, oggi, svegliarsi col pensiero ad un’altra partita ancora, alla prossima formazione, alla finale, al delirio stupido eppure irresistibile di un popolo cialtrone e generoso che conosci e che avrebbe vissuto i prossimi giorni solo per quello, solo per quell’assurda speranza di vittoria in una ossessione in cui non si vince mai. Perché il tifoso così è, in fin dei conti non vince mai, o quasi.
Andando al Napoli, forse sarebbe giusto parlarci solo di Bruno Pesaola, “o’ petisso”, morto il 29 maggio scorso a quasi novant’anni. Il “napoletano nato all’estero” era leggenda vivente del gioco della pedata, innanzitutto di quella pedata picara e scanzonata che aiutava il dopoguerra a uscire da se stesso e poi di quella solo un po’ più televisibile che accompagnava gli ingenui cazzeggi del boom economico. Cercheremo di tornarci sul Petisso, per ora lasciando in pegno il dolce pensiero esposto nella curva B dello stadio San Paolo: “Sei il calcio che mi hanno raccontato, quello di mio padre che io ascoltavo incantato. Parlava di uomini e maglie e di epiche battaglie. Ti ritroverò ogni mattino nei miei sogni da bambino. Addio Petisso”.
Il Napoli attuale, dunque, si è frantumato all’ultima giornata di campionato contro la Lazio, ma forse il frantumamento della squadra era in atto già da un po’, ugualmente allo sfrantumamento dei tifosi…
Nell’ultima serata buona per guadagnarsi il terzo posto della generale e il diritto all’esame estivo di accesso alla coppa europea con musichetta da incoronazione di re e bottino pure più ricco, il Napoli è venuto clamorosamente meno. Sicuramente è venuto meno nel primo tempo della partita, quando i laziali di mister Pioli hanno fatto due gol (Parolo e Candreva gli autori) e gli azzurri di Rafelone un bel nulla. I fischi convinti del gran pubblico sugli spalti e la certa requisitoria di Rafelone negli spogliatoi devono aver pizzicato i dormienti sensi di orgoglio dei pedatori azzurri, che infatti nel secondo tempo sono risaliti sul rettangolo con molta più convinzione e voglia di non perdere. La partita allora si è fatto bella e avvincente, il Napoli ha preso ad attaccare come è pur sempre capace e la Lazio, subito un gol (autore ufficiale Gonzalo, autore sostanziale Callejon), ha cominciato ad impaurirsi e ad avere la fastidiosa sensazione dello squagliamento di ogni cosa, pure del terzo posto in campionato dopo la coppa Italia e il derby romano. Nel frattempo i laziali di porpora vestiti erano rimasti in dieci unità a causa dell’espulsione frettolosa di Parolo e il Napoli poteva comandare le operazioni a suo maggior piacimento. Dieci minuti scarsi e Ghoulam veniva individuato dall’arbitro come capro espiatorio per risarcire la Lazio dell’espulsione e veniva espulso a sua volta. Ma anche “dieci e dieci” il Napoli dominava il campo e trovava il pareggio ancora con Gonzalo, tipicamente abile a destreggiarsi in area di rigore e a battere Marchetti guardiaporta avversario. Indi Maggio cadeva in area laziale in un contrasto contro Lulic, e nemmeno alla moviola si capiva se il fallo ci fosse o meno. Per l’arbitro c’era e così Gonzalo si predisponeva a fare il terzo di giornata dal dischetto. Gonzalo, lo sappiamo, è gran prestipedatore, col caratterino a volte indisponente ma non per questo senza carattere. I rigori poco li sa tirare nondimeno ha voluto prendersi la responsabilità di quello più importante del campionato. Purtroppo sbagliandolo. Alto sulla traversa il pallone calciato da Gonzalo e tutti i denari di cui quel pallone schiattava.
Fallito il rigore, era il minuto 76, il Napoli avvertiva la succitata sensazione dello squagliamento e la Lazio viceversa riquagliava il senso di stare al mondo. Lo spareggio finiva addirittura con due altri gol della Lazio, Onazi e il vecchio Klose i marcatori. Il San Paolo si azzittiva e si spopolava rapidamente. Rafelone Benitèz dopo poche ore se la svignava da Napoli per andare a Madrid, lasciando dietro di sé contestazioni e guai economici, proprio come un re in fuga dal suo popolo. Peccato, peccato per lui, perché Rafelone a Napoli un viceré sarebbe potuto diventare. Francamente non ne è stato capace.
Ma il pallone, si sa, è bello perché offre sempre una seconda possibilità, e quando una stagione è andata male c’è sempre quella successiva…”E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, c’è sempre un’altra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio, che male c’è in questo? Anzi, è piuttosto confortante, se ci pensi.” (Paul di “Febbre a 90°”)