
Risale alla fine di dicembre scorso una nota diramata da “Janes’s”, la casa editrice nata britannica e poi diventata americana specializzata in analisi di mercato in materia guerrafondaia e di relativi affari, secondo la quale l’industria occidentale delle armi subirà una contrazione nel corso del 2015. Strana cosa in verità, soprattutto se si tiene conto che solitamente proprio nei periodi di crisi economica l’industria bellica aumenta i suoi profitti. L’allarme lanciato dai simpatici esperti di economia delle bombe e prima ancora dalla nota società sovranazionale di consulenza e previsione “Deloitte”, si fonda sul fatto che, attualmente, nei principali scenari di guerra a scannarsi sono poveracci contro altri poveracci, circostanza che indurrebbe i Paesi più ricchi a stare tranquilli, quindi a non aumentare le spese per la difesa e a non comprare gli ultimi ritrovati della scienza bellica dagli esosi piazzisti. Insomma, gli arsenali dell’Occidente non si ingrossano e i commerci diminuiscono. La dinamica è stata più o meno questa: prima dell’11 settembre 2001 la spesa globale per armamenti e giocattoli militari non superava la comunque rispettabilissima cifra di 1100 miliardi di dollari annui; dopo gli attentati dell’11 settembre, l’ansia di difesa degli Stati ricchi e le necessità di esportare democrazia hanno fatto lievitare la spesa globale ai 1747 miliardi di dollari calcolati da un istituto di ricerca svedese di “scienza della pace” (il SIPRI) per l’anno 2013. Per il 2015 in corso la stima “preoccupata” di Jane’s non supera i 1600 miliardi di dollari. Una sciagura per il settore…In realtà gli attacchi terroristici (e tutti gli altri) negli ultimi anni non sono globalmente diminuiti, anzi sono almeno triplicati, solo che l’escalation ha riguardato soltanto Paesi poveri che non a caso spendevano poco in armamenti e ancora meno attrezzati erano per difendersi dai terroristi. Il terrorismo internazionale, trovando difficoltà a superare i sistemi di difesa nuovi e radiocomandati messi a punto dai nemici originali (cioè noi), altresì derogando ai suoi più alti obiettivi (sempre noi), ha rivolto e sta rivolgendo le sue attenzioni a Paesi disgraziati e in linea di principio (ma anche di fatto) vittime anch’essi dell’arroganza imperialista. E così, dovendosi difendere loro malgrado, i Paesi colpiti dal neoterrorismo “ndo coglio coglio” hanno cominciato a ingrossare i propri bilanci della Difesa, a decuplicarli, a sperperare (è il caso di dire) in armamenti più del 3% del già parco prodotto interno lordo. Paesi di “morti di fame” come Angola, Algeria, Marocco, Iraq, Pakistan, insieme ad altri meno affamati oggi spendono (per armi) complessivamente 170 volte di più rispetto al 2006. Paesi sviluppati ma molto sperequati come Argentina, Brasile, Cile, India, Polonia, Turchia, Sud Africa, insieme ad altri poco sviluppati (ma sempre molto sperequati) spendono 163 volte di più rispetto al 2006. I soli paesi ricchi ad aumentare le spese di guerra risultano Cina, Russia, Arabia Saudita, Portogallo e Corea del Sud. Ad esclusione del Portogallo, tutti gli altri Paesi preoccupano la “comunità internazionale” e gli Stati Uniti, segnatamente Russia e Cina, visto che la prima si sente accerchiata dalla Nato e nemmeno si parla più di un suo ingresso nel Patto Atlantico (sembrerebbe anzi più realistico un nuovo Patto di Varsavia) e la seconda, sempre ondeggiante fra socialismo e capitalismo, continua a non fidarsi di Stati Uniti e Giappone. Per quanto riguarda gli altri due Paesi con l’arsenale in crescita, la Corea del Sud è in guerra perenne con quella del nord e quindi tutto quadra. L’Arabia Saudita invece è un caso particolare, caso quantomai ambiguo stante l’abitudine degli sceicchi sauditi di promettere amicizia agli americani con la mano destra e di finanziare i di quelli nemici con la sinistra.
Tornando alla tendenza al ribasso dei profitti da armi, sostanzialmente tutta la stranezza dipenderebbe dai tagli alla Difesa fatti dall’amministrazione Obama, che avrebbero fatto scendere il peso degli States nel settore dal 40% al 35% del totale internazionale. Va da sé che un 5% nazionale degli esportatori armati di democrazia equivale ad un nostro (italiano) 75% del totale nazionale. Ma è pur vero che l’Italia, più che a comprarle, le armi è brava a venderle. In proposito, maestra nell’arte fondamentale e decisiva di facilitare l’acquisto di armi si sta invece rivelando la BNL, Banca Nazionale (francese…) del Lavoro, che attraverso la sua succursale italiana finanzia transazioni armate soprattutto a favore di regimi autoritari per un miliardo d’euro all’anno (Fonte: Campagna di Pressione alle Banche Armate – www.banchearmate.it). In pratica BNL mantiene, anche nel suo candeggiato bilancio sociale, l’immagine di banca più o meno attenta all’etica, per poi utilizzare la succursale italiana come divisione “sporca” di procacciamento di clienti e sostegno agli acquisti di armamenti in tutti i Paesi più politicamente instabili del mondo.
Adesso, stando così gli affari nel panorama in divenire delle guerre striscianti e di quelle guerreggiate, le speranze dei mercanti di armi si stanno probabilmente concentrando sulla Libia e sulla cinguettata (ormai anche la guerra si dichiara via twitter) estensione dello Stato islamico del califfo dalla zona di Derna (città di mare a 800 chilometri dalle coste italiane e già serio grattacapo per Gheddafi, che più di una volta vi aveva dovuto reprimere rivolte filo-islamiche) a tutta la Cirenaica (con governo filo-occidentale) e magari pure alla Tripolitania già islamista di governo. Se infatti quelli dell’Isis, strafatti di cocaina e di viagra (come si dice che si strafacciano), effettivamente cercassero di concretizzare gli annunci e di muovere contro i territori diversamente governati della Libia i cui governi ancora non si mettessero fra loro d’accordo, allora un intervento armato italiano, europeo e americano diventerebbe drammaticamente probabile e forse tardivo. In questo caso sciagurato, il mercato di armi dei Paesi “pesanti” potrebbe prendere nuovo slancio per la gioia dei teorici dell’economia della guerra come quelli di Jane’s.
Breve e necessaria spiegazione: la Libia ha almeno due governi, “Tobruk” uscito da elezioni, inizialmente a Tripoli ma poi riparato a Tobruk per sfuggire alla nuova guerra civile e “Tripoli”, uscito dalla fregola islamica e che si è stabilito a Tripoli dopo aver messo in fuga il governo eletto. Poi c’è l’Isis che ha occupato le zone di Sirte e di Derna proclamando il califfato, e a corposa guarnizione ci sono le minoranze etniche, su tutte Amazigh, Tibu e Tuareg, che chiedono autonomia e incrementano fino all’inverosimile il tutti contro tutti. Tuttavia, non essendo ancora diventati tutti matti, in questi giorni sono in corso trattative fra il governo di Tobruk e quello di Tripoli per giungere ad un governo di unità nazionale, condizione imposta dall’ONU per aiutare la Libia islamica ma non ancora islamista contro i fondamentalisti invasatissimi e tagliateste. Il nostro ministro degli Esteri Gentiloni si dice stia facendo pressioni su Algeria, Turchia ed Egitto, sostenitrici rispettivamente del governo di Tripoli Algeria e Turchia e di quello di Tobruk l’Egitto, per favorire l’incontro in Marocco (campo neutro) fra i rappresentanti dei due governi, se così si possono chiamare. La Libia è tecnicamente un casino, speriamo prevalga il buon senso.