
Siamo così presi ad ascoltare le notizie del giorno che non facciamo caso a quello che i telegiornali non dicono. Il nostro ormai è il più delle volte un ascolto passivo e non ragionato, preludio di quello che sarà poi il nostro giudizio critico sul mondo. Altro da dire ci sarebbe. Si potrebbe parlare ad esempio del eccezionale progetto ideato dallo studio Architecture and Vision per portare acqua in Etiopia. Si potrebbe. Ma poi alla nostra coscienza toccherebbe fare i conti con una realtà disarmante: cioè che nel terzo millennio è ancora possibile morire di sete. Quindi no, meglio non parlare di questo piccolo miracolo italiano nel cuore del deserto. Eppure i dati raccolti dall’Unicef sono molto chiari, oserei dire assordanti: “Ancora quasi 900 milioni di abitanti del pianeta attingono acqua da fonti insalubri e circa 2,6 miliardi (quattro abitanti su dieci) vivono in condizioni igieniche incompatibili con la sicurezza e con la salute”. La sicurezza delle fonti d’acqua dei villaggi rurali è infatti compromessa dalla condivisione con il bestiame che abbeverandosi contamina le acque. Questa situazione comporta, oltre ad un elevato rischi per la salute, un aumento notevole di lavoro per le donne ed accentua l’impossibilità per i bambini di accedere all’educazione scolastica.
Una risposta a questo problema è arrivata dall’Italia, più precisamente dagli architetti Arturo Vittori e Andreas Vogler, che hanno creato, con il sostegno del Centro Italiano di Cultura di Addis Abeba e la EiABC (Ethiopian Institute of Architecture, Building Construction and City Development), una struttura che sfrutta l’umidità dell’aria trasformandola, attraverso un processo di condensazione, in acqua potabile. Completamente in bamboo, Warka Water è alta 12 metri e grazie ad un tessuto speciale in polyethylene e alla sua struttura reticolare, può arrivare a raccogliere fino a 100 litri di acqua potabile al giorno. La bellezza del progetto sta anche nella sua realizzazione: nonostante il peso di 90 kg, la torre può essere realizzata dagli abitanti stessi perché costituita da cinque elementi da assemblare senza il bisogno di impalcature. Quindi massimo risultato con il minimo sforzo. L’ispirazione è venuta niente meno che da un piccolo coleottero, il Namib, e dalle sue strategie di adattamento al clima. Il piccolo insetto raccoglie l’acqua del deserto facendo condensare l’umidità sul suo addome, dove si trasforma in gocce, che scivolando sul dorso idrorepellente, raggiungono la bocca. I due architetti non hanno curato solo gli aspetti tecnici e strutturali del progetto ma hanno rivolto il loro sguardo anche alla cultura del popolo etiope la cui identità potrebbe essere racchiusa in una parola: Warka, appunto.
Questo nome è al contempo sinonimo di fecondità e aggregazione: Warka significa infatti albero di fico che nella tradizione etiope non solo è simbolo di fecondità e generosità ma designa anche il luogo di aggregazione e istruzione dell’intera comunità. Più che un progetto il “Warka Water” è una speranza per l’Africa e per tutti quei paesi che non vedono ancora riconosciuto il loro diritto alla vita. Mi piace pensare che ora i bambini etiopi avranno una storia in più da poter ascoltare, perché il “Warka Water” è un progetto che ha il sapore della fiaba e che come tale ha il suo lieto fine: “C’era una volta l’albero dell’acqua nel cuore del deserto…”.