Dopo più di un mese dagli attentati di Parigi, sembrava che le televisioni italiane avessero abbandonato l’ossessione per l’argomento. Dopo quaranta giorni di lezioni h 24 sul terrorismo e i terroristi, sui giovani (e talvolta giovanissimi) dell’Isis che si fanno intruppare il cervello fino a esplodersi su civili inermi per diventare shahid (martiri) e così guadagnarsi il paradiso con le quaranta vergini, sulla geopolitica mediorientale, i palinsesti dei talk-show non hanno previsto più servizi e dibattiti sul terrorismo e la jihad. Ovviamente non potevano andare avanti a dire e ridire sempre le stesse cose, per quanto la litania sia durata non poco, spesso non poco improvvisata. Ovviamente, come sempre accade nell’attuale consumismo televisivo e internettiano, si passa dal tutto/troppo al poco/niente nel giro di una notte. E si è passati dall’abbuffata di cui sopra ad un digiuno (di notizie) per certi versi assurdo, come se l’Isis e il terrorismo islamico non esistessero più, magari stroncati dall’eccessiva rappresentazione di se stessi, come se la Siria d’un tratto fosse stata pacificata dall’arrivo del natale (dopo l’arrivo di Putin).
L’apertura della porta santa per il giubileo straordinario indetto dal papa effettivamente in servizio è diventata tormentone mediatico soprattutto per i rischi minacciati di nuovi attentati; i media, appurata (a cose fatte) l’inaffidabilità di quelle minacce, hanno cominciato a cancellare gli scenari di guerra agli infedeli portata dentro le mura vaticane e pure a prendersi beffa di chi quegli scenari aveva minacciato. Dimentichi che il giubileo inizia con l’apertura della porta di una della quattro basiliche papali romane ma che non dura un giorno, bensì quasi un anno, i media nostrani sembrano considerare finito l’evento e con esso ogni possibile eventualità di attentato. Non è così, lo sanno pure i media, ma per il momento non conviene insistere sul pezzo. Alla prima occasione propizia non mancheranno di tornarci, più carichi di prima.
Facilitare l’informazione, renderla cioè immediatamente aderente all’onda emotiva di quanto accade (sta accadendo), è una delle regole fondamentali del giornalismo di consumo, e soprattutto del giornalismo televisivo, senza preoccuparsi di ciò che non accade per quanto possibilissimo. L’analisi e l’inchiesta, attività giornalistiche che richiedono tempo e studio approfondito, non rientrano nella convenienza degli ascolti, troppo ingombranti per metterli nel frullatore di “news” che la televisione ci propina ogni giorno ogni minuto. E anche una tragedia come quella di Parigi, in realtà tragedia come (e meno di) tante altre carneficine in giro per il mondo disgraziato, ma per noi insopportabile tragedia proprio in quanto fatta in Occidente, quando esaurisce la portata emotiva e morbosa perde anche il diritto alla prima pagina. D’accordo, non si può parlare all’infinito di un fatto pure tragicamente eccezionale, ma nemmeno è sopportabile parlarne continuamente per giorni e settimane senonché, provocata l’indigestione collettiva, evitare di raccontarne gli sviluppi successivi o almeno tentare di farlo. E stiamo sicuri che gli attentati di Parigi non sono privi di sviluppi, solo che nessuno ce li sta raccontando. A banale esempio, qualcuno per caso sa che fine ha fatto l’attentatore di Parigi in fuga, il Salah artificiere del commando assassino? Nessuno sa rispondere, perché non se ne parla più. Eppure Salah non è stato trovato, eppure per diversi giorni la sua fuga veniva descritta in tempo reale, o meglio, veniva immaginata in tempo reale. Troppi giorni sono stati spesi a immaginare la fuga del ragazzo belga che a un certo punto non si è saputo più cosa inventare. Fino a che Salah e la sua Renault Clio sono usciti dai servizi televisivi perché non più funzionali allo scopo, cioè creare curiosità e attenzione intorno al suo dileguamento misterioso. Se Salah vuole tornare alla ribalta dei telegiornali deve solo farsi acciuffare, magari organizzando la scena in maniera cinematografica; e neanche è detto.
Approssimandosi la fine dell’anno e le sue baldorie, i media hanno ricominciato a tessere l’irresistibile terrorismo psicosociale parlando del rischio pubblico “botto di capodanno non in segno di augurio”. C’era da aspettarselo, quando l’allarme può essere lanciato senza alcuna idea del luogo e dell’ora i media più caciaroni organizzano la caciara. Così, già da prima di natale, tv e siti internet fra i più liberi di spararle a piacimento hanno cominciato a fare le ipotesi dei luoghi “a rischio”, tirandoci dentro almeno una dozzina di piazze europee. Bella forza (o bella scoperta) dire che quasi tutte le capitali europee potrebbero essere sotto il tiro dei terroristi nella notte di san Silvestro. Qualsiasi bombarolo un po’ ambizioso (e quelli dell’Isis sono molto ambiziosi) vede nelle feste in piazza di fine anno un’ottima occasione di lavoro. Comunque sia, quello lanciato alla cieca dai media potrebbe tecnicamente chiamarsi “procurato allarme”, praticamente si chiama informazione allarmante, ma allarmante proprio per la qualità dell’informazione, mica per altro.
Poi succede che il 30 di dicembre, temuta ma pure liberatoria, viene fuori la notizia (questa sì attendibile) di un attentato sventato in Belgio che avrebbe voluto far danni nella Grand Place di Bruxelles l’ultimo dell’anno, e tutti, per un attimo, ricominciano a prendere le cose sul serio.
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