
È andata in scena dal 23 al 25 gennaio, alla Galleria Toledo, a Napoli, la “commedia” Una specie di Alaska, scritta dal drammaturgo Harold Pinter, Premio Nobel per la letteratura 2005.
L’opera è ispirata alla raccolta di testimonianze che il neuropsichiatra di fama mondiale Oliver Sacks raccoglie in Risvegli, opera memorabile in cui ci trasmette le esperienze dei suoi pazienti affetti dell’encephalitis letargica, epidemia che dopo il 1916 terrorizzò buona parte del mondo e che fu resa celebre dal film Risvegli, con Robert De Niro e Robin Williams.
Colpito dalle incredibili vicende umane descritte da Sacks, Pinter ci racconta in modo commovente ed estremo il risveglio di una donna dopo ventinove anni di coma letargico.
La scenografia è semplice ma funzionale: ci troviamo nella stanza di un sanatorio, c’è un letto, una sedia e un tavolino. Parte del pubblico è sul palcoscenico, e quindi il rapporto con gli attori è ancora più ravvicinato: il pubblico sembra essere lì come dei tirocinanti in ospedale, pronti a studiare ogni piccolo spostamento della protagonista, per analizzare gli effetti del nuovo farmaco.
Sul letto c’è lei, la bravissima Sara Bertelà, migliore attrice protagonista per il prestigioso premio Le Maschere del Teatro 2013nello spettacolo Exit di Fausto Paravidino, nei panni di Deborah; si sveglia, dopo 29 anni. Ha gli occhi arrossati, è pallida, indossa i calzerotti e la dozzinale camicia da notte rosa, parla con un’agghiacciante voce infantile e ride scioccamente come una bambina. Accanto a lei c’è Nicola Pannelli, il Dottor Hornby, che ha sperimentato su di lei la somministrazione del farmaco L-Dopa, dopamina. Deborah pensa di essere ancora una quindicenne, il tempo per lei si è fermato e non riesce a rendersi conto, nonostante il dottore a un certo punto glielo sveli, che ha dormito per quasi 30 anni. Ricorda quasi tutto della sua vita da ragazzina: i cani, le sorelle, la mamma che ogni giorno la svegliava con un bacio, il padre testardo, la casa, la sua stanza. Poi, il vuoto. Dal momento il cui il tempo per lei si è fermato, si sono fermati anche i ricordi. Soltanto la sorella minore, Paulina, interpretata da Orietta Notari, le racconterà del momento del blocco, e il pubblico scoprirà come sono andate le cose insieme alla protagonista: aveva in mano un vaso con i fiori, e lo stava poggiando su un tavolo, la quindicenne Deborah, quando ad un tratto non riuscì più a muoversi o a parlare. Non ci riuscì più, per 29 anni, sospesa in una specie di Alaska, in cui non si è né vivi né morti. Il tempo perduto non tornerà più, si è perso. In questi 29 anni molte cose sono successe: la madre di Deborah è morta, il padre è diventato cieco, e sua sorella minore ha sposato il Dottor Hornby. Non riesce ad accettare il fatto di avere quarantacinque anni, e non riconosce la sorella quando la vede così invecchiata. La “commedia” assume le sembianze di un incubo, l’incubo del tempo perduto e che non sarà possibile recuperare.
Il racconto prende forma come un giallo, vissuto dal pubblico con incredibile suspense ed empatia con la protagonista, non solo da chi è seduto sul palcoscenico, ma anche da chi è in platea.
Inimitabile la recitazione di Sara Bertelà; bravi, d’altronde, anche Nicola Pannelli e Orietta Notari.
Uno spettacolo che non può lasciare indifferenti e non farci riflettere sulla tragedia di chi è stato guarito dal farmaco, ma non può di certo riavere il tempo perduto.