
Alessandro Di Battista durante una intervista per la situazione di crisi del sindaco Marino Roma .Roma 8 ottobre 2015 ANSA/FABIO CAMPANA
«Io come giornalista, sarei definita da lei più una pennivendola o più una puttana?» La domanda di Lucia Annunziata, che domenica 11 Novembre ha intervistato il ministro della Giustizia pentastellato Bonafede, è pungente e colpisce dritta nel segno, con il ministro costretto a mettere su un sorriso plastico ed a tirare fuori una risposta diplomatica, senza rischiare di sbilanciarsi troppo. Bonafede ha infatti dichiarato che lui “non userebbe mai questi termini” per descrivere l’ordine dei giornalisti, ma che “non se la sente” di commentare negativamente chi si permette di farlo.
La domanda della Annunziata può sembrare eccessiva, prepotente ed ingiustificata, per un ministro che, dopo tutto, non è mai stato protagonista di scenate nei confronti dell’ordine dei giornalisti, ma una motivazione esiste eccome e per scoprirla basta fare un passo indietro: il giorno prima, era stata definitivamente assolta la sindaca di Roma Virginia Raggi, accusata perché, sosteneva la pubblica accusa, avrebbe mentito in merito alla nomina di Renato Marra, fratello del suo ex braccio destro Raffaele, alla direzione del dipartimento Turismo del Comune di Roma.
Da quel momento in poi, il Movimento Cinque Stelle ha deciso di avviare una campagna d’odio brutale nei confronti dell’intero ordine dei giornalisti, reo di aver gettato fango sulla sindaca per i suoi primi due anni di mandato ingiustificatamente. In particolare, ad usare le parole “pennivendoli” e “puttane” è stato Alessandro Di Battista, mentre il vicepremier Luigi Di Maio si è limitato a definire i giornalisti “infami sciacalli”.

Una domanda del tutto legittima, dunque, quella della Annunziata, che ha dichiarato nel corso di quella stessa intervista che questo genere di termini, oltre che screditare i giornalisti in generale, sono offensivi per tutte le donne del mondo.
Non si tratta quindi di una difesa “troppo entusiasta” nei confronti della povera Raggi, ma di un attacco duro e personale da parte di due personaggi pubblici i cui commenti possono essere presi come esempio da gran parte dell’elettorato.
Diventa dunque impossibile giustificare Di Maio e Di Battista, non tanto nei contenuti, quanto per la forma, che porta il dibattito ad un livello infimamente basso: se questa volta per difendersi dalle accuse da parte dei giornalisti è bastato definirli “puttane”, la prossima volta basterà un altro insulto becero e personale a risolvere la questione, portando il dialogo politico sulla stessa linea di una rissa da strada.
Un ministro del nostro governo, perciò, non può “non sentirsela” di redarguire due dei suoi colleghi, nonostante questi facciano parte della sua stessa fazione politica, quanto meno per evitare di creare un precedente pericoloso che possa portare ad un sensibile imbarbarimento del dibattito e della discussione politica.