
“Gli ebrei hanno il naso grosso e un attaccamento morboso al denaro che oserei chiamare avidità”.
Vizi e virtù del popolo ebraico vengono filtrati attraverso l’ironia di Moni Ovadia e gettati in pasto agli spettatori che li divorano con sonore risate e a tratti li masticano incerti buttandoli giù con tiepidi sorrisi.
Cabaret Yiddish è uno spettacolo costruito sugli stereotipi che dai tempi di Mosè hanno stigmatizzato gli ebrei: stereotipi fatti da un ebreo per il piacere e il divertissement di un pubblico sionista e non.
Un’ironia frizzante è usata come arma per decostruire gli stigmi cuciti addosso a un popolo che da sempre vive nell’ occhio del ciclone della storia smascherando pregiudizi comuni talmente radicati nella mente da diventare patrimonio genetico dell’ebreo stesso.
Moni Ovadia, origini bulgare e nazionalità italiana, si definisce un ebreo ateo e dalla condizione privilegiata di chi vive all’ interno di una sfumatura tra due mondi si rivela un saltimbanco del palcoscenico, oscillando perennemente tra la sua cultura madre e la cultura che lo ha accolto facendosi beffe dell’una e dell’altra.
Ma non si tratta di un’ironia dissacratoria, è piuttosto una consapevole lente critica delle caratteristiche e della storia del proprio popolo.
Certo, un tipo di ironia alla vecchia maniera – che il pubblico perdona allo spettacolo considerando che è dal 1992 che Cabaret Yiddish viene ospitato nei teatri italiani – che ricorda i cabaret di una volta, ma sempre intelligente e in grado di far divertire il pubblico.
Lingua yiddish e italiano, parole e musica klezmer. Mondi che inglobano altri mondi integrandoli, così a fare da protagonisti ci sono le storie degli ebrei dell’area mitteleuropea: rabbini, mercanti e mamme yiddish popolano il colorito mondo di Ovadia.
Cabaret Yiddish è uno spettacolo che non ha bisogno di orpelli, quattro musicisti (Paolo Rocca al clarinetto, Maurizio Dehò al flauto, Albert Florian Mihai alla fisarmonica e Luca Garlaschelli al contrabbasso) accompagnati dall’ imponente e piacevole voce di Ovadia sono l’unico lusso che il cabarettista decide di concedere al suo palco.
Lo yiddish è la lingua dell’esule e la musica klezmer racchiude nella sua diversificata melodia la duplice condizione dell’esilio: brani ritmati e frenetici che invitano ad affrontare la vita come una festa si alternano a pezzi di una profonda melanconia in cui ogni nota esprime la Heimat eberaica e la nostalgia per la patria perduta.
Una musica che parla al pubblico di terre lontane e di peregrinazioni, di viaggi e di speranze, quel senso indefinito di gioia e malinconia che accompagna la condizione dell’esilio.