[dropcap]I[/dropcap]l lavoro del giornalista si attesta ancora una volta come un’ occupazione, a volte, pericolosa. Il diritto di cronaca si scontra ancora contro le mafie e l’omertà. Fortunatamente non sempre la criminalità organizzata riesce a far tacere i giornali e la cronaca continua a fare ancora il suo lavoro a discapito dalle ingiurie e delle minacce.
Ed è la storia che vede due giornalisti, ascoltati oggi, in qualità di teste dell’accusa, dal pm della Dda di Catanzaro, Simona Rossi, nel processo denominato “Ragno” contro il clan Soriano di Filandari (Vv). Dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia hanno deposto il giornalista del “Quotidiano della Calabria” Pietro Comito e il caposervizio della redazione vibonese della Gazzetta del Sud, Nicola Lopreiato. Comito, all’epoca dei fatti caposervizio della redazione di Vibo del quotidiano “Calabria Ora”, ha raccontato in aula delle minacce telefoniche di morte che avrebbe ricevuto il 2 luglio 2010 dopo la redazione di alcuni articoli sulla famiglia dei Soriano.
In particolar modo, il cronista ha confermato che alcuni ignoti lo invitarono con tono minaccioso e ingiurie a cessare di scrivere articoli sui Soriano, altrimenti sarebbe stato ucciso a colpi di fucile e gettato nei pressi del cimitero di Ionadi. Lopreiato ha invece dichiarato in ordine a due lettere inviategli dal boss Leone Soriano, che in quel momento era detenuto nel carcere di Cosenza, contenenti offese e insulti, con la minaccia di stare attento alla propria famiglia e l’invito a non occuparsi più delle vicende giudiziarie del clan dei Soriano. Ambedue gli episodi erano stati denunciati alla polizia giudiziaria dal caposervizio della Gazzetta con la contestuale consegna delle 2 missive.
Nel corso del processo hanno poi deposto tre carabinieri della Stazione di Filandari, anche loro risultati oggetto di intimidazioni: dagli spari contro le abitazioni e le autovetture, alle scritte ingiuriose in luogo pubblico, sino al taglio di diverse piante di ulivo, ai colpi di pistola contro un panificio del cognato di un militare dell’Arma e alle telefonate minatorie.
Vincenzo Nigri