
Esistono spettacoli capaci di toccare l’anima più di altri, accelerando i battiti cardiaci ed eludendo ogni respiro: “Le cinque rose di Jennifer” è uno di questi.
Tratto dal celebre dramma di Annibale Ruccello (il compianto regista stabiese prematuramente scomparso all’età di 30 anni), opera prima della “Trilogia da camera” portata in scena nel 1980, è la storia di Jennifer, una creatura dal candore disarmante, dannatamente fragile, con un disperato bisogno di dare e ricevere amore; Jennifer è la voce della solitudine, un inno al romanticismo, il coraggio di divenire ciò che si è; Jennifer è la rosa delle passioni, il grido degli ultimi, la carezza della sera, lo specchio della profondità umana.
Daniele Russo interpreta una napoletanità tout court, e con la sua impeccabile rivisitazione della delicatezza e dell’eleganza insegna all’intero teatro il pudore dei sentimenti: egli è Jennifer, un travestito che vive in una casa popolare dalle tinte tipicamente kitzsch e che inganna la sua solitudine consumando cibi precotti ed imbandendo la tavola in attesa dell’imminente arrivo di Franco, un ingegnere genovese di cui è innamorato; l’incontro di una notte che gli ha cambiato l’esistenza, tre lunghi mesi nella speranza che il telefono squilli e che sia proprio la voce di Franco a tenergli compagnia; intere giornate trascorse a parlare con una cornice priva di foto ricordando la bellezza dell’uomo, ad immaginare una conversazione qualora egli telefoni, ad indossare parrucche dai colori sgargianti, volant a rete e body rosa; non è un caso, infatti, che Jennifer faccia il suo ingresso vestito da uomo, lontano da giudizi indiscreti e violenti pregiudizi, perché è soltanto tra le mura domestiche che si sente libero di essere se stesso. Una serie di interferenze fanno si che Jennifer smisti tutte le chiamate destinate ai travestiti del quartiere, molte delle quali diverranno un modo per arginare la sua costante solitudine, continuando a riporre fiducia nella telefonata di Franco; qualcuno si diverte ripetutamente a schernirlo, chiamando ad ogni ora del giorno e della notte ed alimentando via via la sua disperazione.

Sullo sfondo Partenope, una città che accetta ed integra la diversità sessuale ma che non risparmia il quartiere in cui vive Jennifer da efferati delitti contro i travestiti: alla radio, intervallate dalle canzoni di Patty Pravo, Mina e Ornella Vanoni le notizie minuto per minuto legate al misterioso serial killer che dissemina il terrore, e che secondo gli inquirenti potrebbe essere proprio un travestito. Il suo macabro rito consiste nel porre cinque rose rosse sul corpo della vittima, dopo averle sparato un colpo di pistola in bocca.
La radio diventa per Jennifer l’intermediario verso il mondo esterno, l’anello di congiunzione con Franco, al quale dedica ogni giorno “Se perdo te” di Patty Pravo: “A Franco, dalla sua Jennifer che l’aspetta fidente”, le parole raccolte da RADIO CUORE LIBERO, emittente che oltre ad occuparsi di messaggi d’amore trasmette le canzoni preferite di Jennifer; quest’ultima con sensualità danza sulle note di “La bambola” chiedendo rispetto al proprio uomo, che dopo averla usata e sfruttata a proprio piacere l’ha “Buttata giù”, non essendo ormai più utile, proprio come una bambola.
Jennifer è la protagonista di una solitudine senza scampo, il suo dramma ruota intorno all’assurda condizione dell’attesa, come accade a Vladimir ed Estragon di “Aspettando Godot” di Samuel Beckett: entrambi aspettavano su una desolata strada di campagna un certo “Signor Godot”, esattamente come Jennifer attende una telefonata che non arriverà, alienata dalla società e dall’universo circostante. Jennifer è logorata dal tormento per un uomo che le ha promesso il matrimonio, da una passione che culmina con lo struggimento, con il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, con le illusioni, perché è più facile crogiolarsi nel dolore che guardare in faccia la realtà: l’illusione di star bene da soli, di godere appieno della libertà (emblematica, a tal proposito, la scena in cui Jennifer discute telefonicamente con un’amica dei privilegi che la solitudine comporta, tra cui il non cucinare qualora non se ne abbia voglia); crogiolarsi nella sofferenza di un amore non corrisposto richiede fermezza, e Jennifer cerca un rimedio al suo “Male di vivere” nell’utopia di ciò che avrebbe voluto, ed in quello che è il più ancestrale desiderio insito negli esseri umani: l’amore.
L’illusione di Jennifer si fa via via più estenuante, raggiungendo l’apice della tensione drammatica con l’arrivo in scena del suo “Doppio”, Anna, ruolo tutt’altro che semplice interpretato magistralmente da Sergio Del Prete: presenza apparentemente tacita, Anna rappresenta lo specchio di Jennifer, la sua ombra, che la segue pedissequamente in ogni momento della giornata, in tutte le sue azioni quotidiane, dall’imbellettamento al suo incessante e stanco camminare ai bordi dell’universo desolato dei sogni; Jennifer è un ultimo, Jennifer è il diverso, e la sua solitudine è proprio quella degli ultimi, dei sognatori, delle anime fragili, disperate, come il caro poeta Cesare Pavese o il tormentato scrittore Franz Kafka; un umorismo noir, toni tetri, riso malinconico, mentre tra “L’appuntamento” di Ornella Vanoni e l’ennesimo squillo del telefono il piano sequenza si interrompe, le luci barocche si tramutano in chiaroscuri che rallentano l’immagine di Jennifer e quella del suo alter ego: Jennifer grida ma nessuno può sentirla, il suo urlo è identico all’urlo di Munch, testimone dell’incomunicabilità e dell’angoscia che comporta l’abbandono, del vuoto che lascia l’assenza dell’amore, della difficoltà che comporta vivere senza.

“Grande, grande, grande” di Mina, e la lezione di vita che Jennifer offre al pubblico: “Dove c’è gusto non c’è perdenza”: d’un tratto qualcuno bussa alla porta, sembrano proprio i passi di Franco; utopia svanita in fretta, non appena Jennifer scopre che si tratta di Anna, un travestito che abita a qualche isolato di distanza. Anna vive da solo con la sua gatta Rosinella, e sta aspettando una telefonata importante legata ad un annuncio che ha da poco pubblicato sul giornale; chiede a Jennifer di poter attendere la telefonata a casa sua, dal momento in cui sussistono interferenze e tutte le chiamate della zona vengono filtrate dalla stessa Jennifer.
Tra un caffè ed una sigaretta l’incontro tra le due creature diviene l’occasione per mettere a nudo i meandri più reconditi dei rispettivi animi, svelare le reciproche esistenze e metterle a confronto: il telefono squilla di nuovo, eppure Jennifer non concede ad Anna di rispondere, certa che sia Franco a telefonare: “Ragionate signò, se Franco mio chiama e trova occupato non mi richiama più”, afferma Jennifer prima di congedarlo.
Anna va via deluso, mentre Jennifer continua a scandire le sue giornate a ritmo di trucco e musica:” Ancora” di Mina, una danza erotica che lascia spazio alla più calda immaginazione, l’ennesimo anelito di speranza che Franco possa tornare “Ancora”.
Jennifer indossa una parrucca fuxia, si prepara, ed in un crescendo di disperazione indossa una borsetta con all’interno una pistola; un corto circuito fa mancare la luce all’interno delle abitazioni, ed è in quell’istante che arriva Anna, alla quale è appena stata uccisa la sua amata Rosinella. L’assenza della luce diviene metafora del buio che di lì a poco definirà l’esistenza di Jennifer, mentre quella di Anna è appena stata segnata dall’omicidio dell’unico essere vivente con il quale era riuscito ad instaurare un legame: Anna ha con sé un coltello, convinto che sia stato Jennifer ad ammazzare Rosinella, in preda alla rabbia ed accecato dal dolore; chi è davvero Anna? E’ un demone che dimora inquieto nell’animo pronto ad uscire quando sopraggiungono le tenebre, quando l’angoscia soffoca gli occhi? Oppure è Jennifer che si aggira nel quartiere travestito da prostituta?
Colpo di scena, accompagnato da un colpo di pistola: Jennifer si toglie la vita, dicendo finalmente addio ad un’esistenza che non le appartiene e che probabilmente non gli è mai appartenuta davvero :”Non voglio stare sola“, parole pronunciate più volte e scandite dalla paura del gesto che sta per compiere, ma mai abbastanza irriverenti da fermarlo; il senso di vuoto interiore e di solitudine che caratterizzò la fine triste della partita di Cesare Pavese, morto sucida in piena estate ed espresso nel soliloquio dell’angoscia.
Un dramma che si concretizza in uno stato di incertezza e di lacerazione di cui Jennifer non riesce a liberarsi e che lo porta a maturare l’idea di rinunciare ad una vita che gli appare esasperatamente povera; se per Pavese fare poesia rappresentava l’unica possibilità di sentirsi vivo e di allontanare la tentazione della morte, per Jennifer l’amore era il solo vademecum per ridurre le infelicità.
Una riflessione amara, definitiva, che equivale alla consapevolezza del fallimento del recupero del passato, che ormai non esiste più se non nella memoria; del senso del nulla che può essere fermato solo con la morte, vista come l’estrema possibilità di ribellione e di rivalsa.
Il telefono riprende a squillare. Godot è finalmente arrivato.
