
Apro la finestra e osservo uno scenario spettrale da guerra post atomica, dove non è l’atomo il protagonista ma un virus. Simile ad un quadro di Klimt, un romanzo di Kafka o un cerchio di Inferno dantesco, in cui anime solitarie si muovono cupe e silenziose, singole monadi di un universo attecchito e sbalordito. Il silenzio può essere fragoroso e farci riflettere più del rumore.
Piccole esistenze che avanzano caute come se dovessero inciampare da un momento all’altro, maschere sul viso come nelle tristi corsie degli ospedali, rare le auto che passano e cercano di fare in fretta. Dai palazzi di fronte si scorgono persone costrette a coesistere ed a recludersi: hanno sguardi sepolcrali ed impauriti di chi non sa che cosa può succedere.
Qualcuno tenta di esorcizzare la paura e fingere una normalità perduta, appigliandosi ai piccoli e rassicuranti gesti quotidiani quali stendere la biancheria, chiacchierare col vicino o fumare una sigaretta sul balcone.
La famiglia ritorna simbolo di riappacificazione e di amore, anche se l’invettiva di Gide “Famiglie, io vi odio!” risulta più credibile nello scempio che ne scaturirà, fatto di contrapposizioni frontali, impossibili coesistenze sine die e miseri cocci di rapporti ormai logori e passati.
Niente è come prima, e probabilmente non lo sarà mai più.
La primavera incombente è un triste contraltare a queste immagini di apocalisse; non la guerra, come già detto, non l’atomo e la sua fissione, bensì un virus invisibile e maledetto ha cambiato le scene del mondo e delle finestre.
Non lo avremmo mai creduto, ma questa vicenda ci restituisce alla nostra precarietà, ci rende consapevoli che non siamo invulnerabili, che nulla è scontato, e che la tecnica di cui siamo schiavi ci ha tranquillizzati troppo, rendendoci tutto estremamente facile e facendo di noi occidentali la parte di umanità più debole della storia.