
L’audacia di Gabriele Russo non conosce confini, d’altro canto chi ha la fortuna di esser figlio d’arte sa bene cosa significhi essere visionari: e solo uno dei figli di Tato Russo (emblema storico del Teatro Bellini) poteva portare in scena uno dei testi più acclamati di Molière, il “Don Giovanni”, rielaborandolo in chiave post moderna partendo dall’opera inglese di Patrick Marber; risultato “Don Juan in Soho“, che ambienta la pièce in un quartiere a luci rosse londinese patinato e sfavillante, in cui il kitsch dello sfarzo coniuga le nefandezze di un Don Giovanni fedifrago fino alla fine.
Volantini in stile vintage, un completo verde petrolio con tanto di scarpe coordinate, una blusa con incise le proprie iniziali della medesima fantasia della vestaglia, che il protagonista indosserà sin dalle prime scene. Le premesse per una perfetta riuscita c’erano tutte, oltre ad un pubblico attonito e gremito, entusiasta del tanto atteso ritorno in platea.
Al calare delle luci in sala ci si ritrova dinanzi un Don Juan morto e tutti i personaggi, emblemi di stili di vita diametralmente opposti, gli si avvicinano incarnando il ritratto della società contemporanea: la spettacolarizzazione del dolore, il pathos destato dalla macabra curiosità di un cadavere, di cui i selfie verranno presto postati sui social per fare notizia. Uno specchio atroce dell’ipocrisia che accomuna chiunque, a dispetto delle divergenze.
Un flashback dà inizio alla performance, come se qualcuno stesse riavvolgendo il nastro di una pellicola già vista, mentre gli attori corrono in un circolo infinito, una pedana mobile che funge da altare roteante, il palcoscenico della vita che di reale non possiede alcunché, soprattutto se si parla di quella del Don Giovanni.

Il linguaggio vernacolare e volutamente crudo sin dal principio, aderisce alla quotidianità degli spettatori. L’ambientazione si sposta nel foyer di un hotel, in cui il factotum del Don Giovanni, Stan (definito un hobbit pervertito), enuclea il vizio della carne dello stesso protagonista, ed è pronto a tradirlo non appena il cognato di quest’ultimo lo raggiunge chiedendogli dove fosse, ma soprattutto cosa stesse facendo e con chi.
Stan rivela, dopo qualche effimero momento di riluttanza congiunto al suo opportunismo, che il padrone è in camera con una modella croata: la scena successiva non lascia spazio agli indugi dello spettatore, che fà la conoscenza di un Don Juan nuovamente affamato, giacché incapace di “Resistere più di 12 ore senza fare sesso“.
Daniele Russo interpreta magistralmente un uomo avido, il cui scopo esclusivo è godere dei piaceri fisici, persino di quelli più perversi (ad otto anni il Don Juan masturbò un cavallo), noncurante del dolore che procura a chi gli sta intorno e chi lo ama davvero, come la neo sposa Elvira ed il padre, un uomo ricchissimo ma mai rassegnatosi all’amoralità del figlio.
Elvira è sinceramente innamorata di Don Juan, ed è forse colei che soffre di più rispetto agli altri, conquistata dalle bugie del marito il cui unico obiettivo fu quello di “Portare a letto una vergine”, e disposta a perdonarlo malgrado l’immediato desiderio di Don Juan sia quello di “Procurarsi un’eschimese”, devolvendo il compito di trovarne una a Stan. Don Juan possiede un vero e proprio “Catalogo” (benché non ami definirlo così) di donne usa e getta, un vademecum dei tempi moderni in cui i rapporti umani sono liquidi, inesistenti, assuefatti dalla tecnica e dal virtuale. Bersaglio inevitabile l’ingannevole società di massa, dominata dai social, dai like, dai follower, in cui l’Homo sapiens è ridotto ad “Homo consumens“. Il solo obiettivo è “Consumare”, consumare oggetti, consumare fisicità. E le donne per Don Juan non sono altro che apparati di consumo da abbandonare al termine dell’atto primario.
I fratelli di Elvira sono intenzionati ad uccidere Don Juan per il male gratuito inferto alla sorella, ma egli non si perde d’animo e, attratto da una nuova donna, decide di partire alla volta di Londra, con un battello che lo farà arrivare sul Tamigi. Sarà proprio la collisione con un altro battello a far finire un uomo in ospedale, e neppure in una circostanza tanto drammatica Don Juan resisterà al richiamo della sensualità: egli cercherà di conquistare la donna il cui marito sta morendo, mentre sotto una coperta riceverà da Lottie, una giovane donna il cui fidanzato ha salvato Don Juan dalle acque del Tamigi ed intenzionata ad ottenere una sorta di “Risarcimento” per la buona condotta del consorte, una fellatio.
L’esistenza di Don Juan continuerà a nutrirsi di squallore, degrado, miseria, anche quando il padre lo implorerà di tornare da Elvira e di incominciare a vivere legandosi stabilmente a qualcuno; nonostante il tentativo di benevolenza paterna Don Juan resterà irremovibile e fiero della propria condotta, fingendo un sincero pentimento interiore nei confronti del genitore, della madre defunta, di Stan e promettendo di chiedere scusa ad Elvira. La sua costante ostinazione raggiunge l’apice nell’incontro con un barbone, al quale promette di regalare il suo costosissimo orologio, solo se il clochard bestemmierà contro Allah; dopo svariati e vani tentativi Don Juan si rassegnerà alla caparbia reverenza religiosa dell’uomo, che pur non avendo ricevuto alcuna grazia dal dio (è povero, solo, malridotto) lo proclamerà “Misericordioso”, ed alla domanda di Stan sul motivo per cui non abbia ricevuto lui in regalo l’orologio, Don Juan risponderà:”Lui ha dimostrato di credere in qualcosa, pur non avendo nulla. Non è un baciapile, un ruffiano o un ipocrita come te”.
Ad interrompere la ruotine del protagonista una misteriosa quanto agghiacciante statua, che lo richiamerà per fargli chiudere il cerchio, intimandogli di cambiare a patto di risparmiargli la vita. Don Juan mostrerà fino alla fine il coraggio e la fermezza che lo hanno sempre contraddistinto, finendo con l’essere ucciso proprio dai fratelli di Elvira, e sigillando lo spettacolo con un ritorno alla scena iniziale.

Il protagonista, malgrado la depravazione che lo contraddistingue, è l’unica persona realmente sincera in un mondo di ipocriti, in cui i governanti non governano, i politici non fanno politica; egli non si piega alle richieste di cambiamento, non si lascia impietosire dal dolore, non abbandona i propri insani principi per amore, è sordo ai richiami del cuore ma non a quelli dell’onestà. Sceglie di morire in libertà piuttosto che porre scuse non sentite, pronunciare bugie; è la prova dell’integrità in un mondo che di integro non possiede più nulla. Egli non ha bisogno di recitare, la sua vita è autentica, non indossa alcuna maschera, non si cala in alcun ruolo.
Don Juan è umano nella sua agghiacciante disumanità: Pier Paolo Pasolini negli Scritti corsari lo avrebbe definito “Edonista e indifferente”.
Subdolo, spietato, freddo, intollerante, il protagonista arriverà alla fine con la consapevolezza tipica dei greci e, soprattutto “Confessando di aver vissuto“.