
Atmosfera kafkiana, il peso di un’assenza, di un vuoto mai colmato. Un incontro tra Carmelo Bene e il teatro dell’assurdo di Ionesco. Un connubio psichedelico tra arte ed anima, tra corpo e mito, quello che il giovane regista e drammaturgo Joele Anastasi ha deciso di portare in scena al Teatro Bellini: dopo il trionfo nell’ambito del Napoli Teatro Festival 2020, i Vùcciria si apprestano ad incantare il pubblico ancora una volta, e narrare la genesi di “David” equivale a svelare la parte più rencondita dell’esistenza del narratore-biografo: partendo dal proprio ritratto familiare, Joele mette in scena la rappresentazione ideale di suo fratello, di un aborto emotivo, di un’incessante lotta alla sopravvivenza per non sprofondare nel baratro.
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«Ho provato ad immaginare», l’incipit dell’opera: l’immaginazione che non si contrappone alla verità, ma che ha il compito di rendere la vita vivibile, di avvicinare l’uomo al suo gran desiderio di piacere infinito. Ci si sente liberi nella misura in cui essa non supera i desideri reali e nessuno dei due oltrepassa la capacità di agire. Immaginare equivale a sognare, a spiccare il volo della libertà, a ridurre le infelicità di cui è costellata la vita.
“Sentite, sentite come si muove!”, grida una voce maschile, mentre il palco è dominato da una vasca d’acqua, punto focale dell’essere “In fieri” e principio primo delle cose (caro Talete di Mileto), che nel corso della performance diverrà il simbolo della goliardica quotidianità padre-figli.
David è la storia di un legame immaginato e mai realizzato, il divenire eterno delle cose; David è un’utopia, l’insonnia, l’impaziente desiderio di tramutare l’artista della società contemporanea in una chimera.

Dopo “Io mai niente con nessuno avevo fatto” e Immacolata concezione“, l’ormai celebre compagnia siculo-romana torna a creare un filo invisibile con lo spettatore; come Filemone e Bauci, celebri protagonisti de “Le Metamorfosi” di Ovidio, tramutati in una quercia ed in un tiglio uniti da un tronco pur di non separarsi mai, David è una storia d’amore. E l’amore, si sa, non vorrebbe assenza, né abbandono; l’amore è rivoluzionario, perché con la sua forza sovverte l’ordine delle cose. E sarà proprio con la forza dell’amore per un fratello che David rivelerà sin da subito l’essenza di una vita vissuta tra fantasia e solitudine.
L’assenza che nasce dalla scomparsa di qualcuno che c’è stato diventa rimpianto, quella che nasce da colui che non è mai esistito o esistito per brevissimo tempo diventa desiderio o utopia.
«Come lo spiego che sei la voglia di amare che abita in me, fratello mio?»
L’amore viscerale per un essere umano altro da sé, il bisogno di darne e riceverne senza riserve, l’essenza di una vita trascorsa tra fantasia ed alienazione, lo sguardo dello spettatore immediatamente proiettato su una statua di marmo rivestita da una teca trasparente, il cui significato verrà reso noto al termine dello spettacolo. La spensieratezza di una vita parallela sfiorata e mai toccata con mano, intervallata da musica, scherzi, dal dolore lancinante di una madre che non si rassegna davanti all’evidenza ma si ostina a perdurare nel mutismo e nell’incapacità di “Elaborare il lutto“.
Joele Anastasi interpreta David, un figlio non voluto, un fratello mai nato, una “Vacatio” su una poltrona, un dolore mai superato. Il fratello minore di un figlio unico, il secondogenito respinto, individuo che in qualche modo prende corpo ed esiste. Il grande assente protagonista di questo dramma familiare. Un’analogia audace e non azzardata rintracciabile in “Aspettando Godot“ di Samuel Beckett, in cui i due protagonisti continuano ad attendere all’infinito qualcosa che sembra imminente, senza far nulla perché si realizzi o si smuova; Anastasi segue le linee guida del drammaturgo irlandese, tracciando il suo “Godot” in una persona assente, attraverso la sensibilità dell’animo di David. E, proprio come Godot alimentava l’isolamento dei protagonisti, David amplifica la solitudine di Antonino (che ha il volto di Eugenio Papalia), fratello maggiore pur essendo figlio unico, che ne dipinge perfettamente ogni tratto somatico, ogni piccolo dettaglio del carattere, ogni elemento della sua storia, sortendone l’assenza.

David giace all’ombra del silenzio di sua madre (interpretata da Federica Carruba Toscano), nel mutismo impenetrabile che lei ha scelto come punizione ritendendosi l’unica responsabile della morte del suo bambino: la sua remissiva accondiscendenza alla volontà del suo uomo.
Egli è vittima del senso di colpa di un padre, Francuccio (Enrico Sortino), che trascorre la sua vita piantando fiori e coltivando il rimpianto: il rimpianto di un amore appassito, di una moglie desiderata, di una gioia perduta.
I personaggi del dramma abitano la dimensione dell’attesa stroncata, dell’assenza, dell’impossibilità. Unico personaggio ad esserne esente Antonino, il quale sembra estraneo a questa dimensione, piuttosto sembra ovviare alla mancanza con l’immaginazione, riempendo le sue giornate di parole e fiori nel vano tentativo di sopperire a questa assenza.
Una storia di ordinario dolore declinata nei toni di un visionario Anastasi; scandita da silenzi, gesti, pause, immagini, dai toni carismatici e dai marcati accenti siciliani.
Sullo sfondo, una vasca d’acqua che rievoca il Mediterraneo come l’utero di una madre, entrambi emblema di lutti e sciagure: simile ad un mare che ingloba le lacrime di dolore di un’intera famiglia, l’acqua racchiude in sé l’immagine ideale della generazione e del nichilismo. Nell’acqua trovano sfogo la scintilla dell’utopia, i giochi infantili di Antonino e di suo fratello intenti a radersi per la prima volta, la fantasia; dall’acqua prende forma il corpo statuario di David nella sua ideale forma umana, nell’acqua si scioglie, infine, la sua effigie; i seni di Federica Carruba Toscano come simbolo di una maternità annientata; la nudità di Joele Anastasi, il cui corpo rassomiglia ad un’opera d’arte; la musica emessa da uno stereo, una tavola imbandita per tre, un giardino coltivato nella speranza eterna del perdono, litri di latte, un busto del David liquefatto nell’acqua come dovrebbe liquefarsi il dolore e la solitudine dei protagonisti. Dall’inizio sino alla termine della pièce i loro corpi diventano lo specchio del dramma familiare. Dalla vita alla morte, dal dolore alla gioia, David si dona al pubblico nella sua originaria perfezione, come perfetto è nell’ideale il rapporto col fratello mancato. Vivere l’altro fino a diventarne parte. Essere l’altro, nelle forme più estese. Essere nell’altro.
«Tu sei me e io sono te.»
Incontrare l’assenza diventa quindi un modo per conoscere se stessi, i propri limiti, e il desiderio dell’uomo quasi mai appagato di essere felici.