
Janara: una lazzara, una strega, una cannibale, che sogna però di essere trattata come una principessa. Nel grottesco testo Il Baciamano di Manlio Santanelli si incontrano e si scontrano due mondi opposti, due realtà della Napoli del 1799: una donna che abita nei bassi, e che parla un napoletano stretto con influssi della lingua spagnola, e un giacobino, catturato dal marito della protagonista, che sta per essere cucinato e divorato, e parla un italiano forbito e raffinato non privo di francesismi.
Lo spettatore viene subito proiettato in un mondo dell’assurdo, irreale: non solo per gli episodi di cannibalismo, che, pur non essendoci familiari, a detta di qualcuno sono avvenuti realmente nella Napoli del diciottesimo secolo, ma soprattutto per l’abbattimento delle barriere linguistiche e socioculturali dei due protagonisti, che, pur essendo agli antipodi, non solo si capiscono, ma riescono anche a stabilire un rapporto dialettico.
È come se qualcosa li accomunasse, al di là delle loro esperienze di vita. Entrambi sognano un mondo diverso: lui in nome di alti ideali, e lei per sfuggire alla miseria. Nonostante le differenze, l’uno riesce a “mettersi nei panni” dell’altra, Janara continua ad ascoltare con attenzione (nonostante cerchi di dissimularlo) le motivazioni del giacobino, e lui non sembra criticarla, è come se comprendesse la sua situazione di donna miserabile.
La messa in scena è incentrata sul paradossale dialogo tra i due. Veloce e movimentato, porterà, ad un certo punto, ad un rovesciamento dei ruoli: Janara, in lacrime, chiederà al giacobino di baciarle la mano, e soccomberà ai suoi piedi quando il cortese gesto sarà compiuto. La carnefice, colta alla sprovvista in tutta la sua debolezza, potrebbe diventare vittima, ma il giacobino, in nome dei suoi alti ideali e della parola data, non la uccide. Un colpo di scena, poi, renderà il ritmo del racconto ancora più serrato e veloce, fino a regalare allo spettatore il brivido di un finale per nulla scontato.
Interessantissimo l’excursus di Janara, quando racconta una favola per far addormentare il giacobino: un racconto seicentesco, la cui protagonista è una donna zoppa, e miserabile, maltrattata, proprio come lei. È il punto in cui, forse, la straordinaria interpretazione di Alessandra D’Elia raggiunge il livello più alto, sembra quasi indemoniata quando fa la parte del suo alter ego, e forse è il momento in cui il pubblico si immedesima di più nel personaggio.
Bravo anche Stefano Jotti nei panni del giacobino petulante.
Note di merito vanno, inoltre, alla scenografia e ai costumi di Rosario Squillace, alle luci di Cesare Accetta e alla regia di Laura Angiulli. Il palco è piccolo nel Convento di San Domenico Maggiore, ma lo spazio è ben gestito. Le pentole e gli altri attrezzi da cucina che si accumulano sulla scena, i vestiti dell’epoca e la maestria del tecnico delle luci contribuiscono a far calare il pubblico nella Napoli di fine ‘700.
Ma il punto forte dello spettacolo resta il gesto d’amore di Manlio Santanelli nei confronti del teatro: il teatro va oltre la vita reale, prende spunto da questa, ma ne riesce a superare gli ostacoli, riuscendo anche ad abbattere le barriere dell’incomunicabilità di due linguaggi e di due mondi opposti.
Convento di San Domenico Maggiore, Chiostro
vicoletto San Domenico Maggiore – Napoli
dal 20 al 31 luglio 2015
il Teatro coop/produzione
IL BACIAMANO
di Manlio Santanelli
regia Laura Angiulli
con Alessandra D’Elia Stefano Jotti
scene Rosario Squillace
luci Cesare Accetta