
C’è sempre un momento in cui si sente il bisogno di “Ammazzare” i genitori, di annientare la tela di ragno che intrappola generazioni e generazioni di figli, di sancire il confine invalicabile tra “Maior” e “Minus”.
Le famiglie possono diventare la più irreversibile delle condanne se dominate dall’ipocrisia, dall’esercizio dispotico ed esasperante del ruolo materno o paterno, dalla patetica, inaccettabile pretesa di fermare il tempo e la vita della prole.
Lo scrittore André Gide, con la sua invettiva “Famiglie, vi odio!”, ebbe il coraggio di denunciare la celebrazione autoreferenziale del focolare sacro, l’autorità spesso autoproclamata dei componenti al suo interno, il malessere profondo che alberga nell’animo di chi reprime la rabbia e riversa come un fiotto di lava sulle persone il proprio disagio e la propria aggressività.
L’indimenticato Mario Monicelli, nel 1992 realizzò un film intitolato “Parenti serpenti“, per confermare il pensiero di Gide e per smascherare la tartuferia della società italiana, una morale anarchica che non ha alcuna fiducia nell’istituzione della famiglia, intesa non in accezione mafiosa bensì come saldo perno di riferimento per coloro che ne fanno parte. A distanza di quasi vent’anni Luciano Melchionna, il profetico “Papi” (per gli amici più trasgressivi) di “Dignità Autonome di Prostituzione” (lo spettacolo “Bordello” dell’arte andato in scena per la prima volta nel 2007 per poi intraprendere una tournée in tutta Italia) rende omaggio al regista italiano portando in auge al Teatro Sannazzaro di Napoli la performance che debuttò nel 2019 , ed in seguito interrotta a causa della pandemia.
Ad impersonare i ruoli di Trieste e Saverio (nel film di Monicelli interpretati rispettivamente da Pia Velsi e Paolo Panelli) i magistrali Giorgia Trasselli e Lello Arena: lei matriarca ancora energica, combattente e pretenziosa “Quando Trieste ti dice una cosa la devi fare e basta“, per citare una delle scene di apertura dello spettacolo, nonché il suo modo di rivolgersi all’anziano marito), lui sottomesso al volere della moglie ed affetto dai primi segni di demenza senile, divertente e commovente allo stesso tempo, con un’ombra di malinconia che oscura il volto e con un’amnesia probabilmente voluta, così da non guardare in faccia la realtà. Nei panni degli figli e dei consorti dei figli della coppia un cast composto da attori ormai affermati nel panorama cinematografico e televisivo italiano: Anna Rita Vitolo (molti la ricorderanno come madre di Lenù nella fiction L’amica geniale), Luciano Giugliano (Michelangelo Levante in Gomorra), Andrea de Goyzueta, Marika De Chiara (Vincitrice del Premio Speciale Proarte 2017), Carla Ferraro (interprete de L’ultimo Pulcinella), Raffaele Ausiello (anche lui figlio del papi Melchionna nelle varie edizioni di Dignità Autonome di Prostituzione).
Un Natale in famiglia, nel paesino d’origine, Sulmona, come ogni anno da tanti anni. Una madre intenta nei preparativi di un pranzo luculliano che intima al marito di “Far trovare tutto in ordine per quando arriveranno”. La meticolosità della donna ha come destinatari i figli, giunti dalle città in cui vivono per trascorrere le festività in compagnia dei genitori.

A sbarcare per primi, annunciati dal suono di una campanella, Lina e il marito Michele, costei in preda ad una costante nevrosi e da una colite spastica sopraggiunta, a suo dire, a causa dello stress e dell’inoperosità del marito che, pur rincasando per primo dal lavoro, “Non apparecchia neanche a tavola“. In questo ruolo, che sul grande schermo toccò a Marina Confalone, troviamo una bravissima Anna Rita Vitolo, perfettamente calatasi nel personaggio ed impeccabile persino nella pronuncia del dialetto abruzzese. Michele è un geometra comunale iscritto alla Democrazia Cristiana, che si vanta di non averla mai votata; subito dopo fa il suo ingresso Milena (a suo tempo interpretata da un’indimenticabile Monica Scattini), eternamente in preda alla sofferenza perché non può avere i figli e perché “Donna completamente sola“. A differenza del film (oltre che all’ambientazione, da Melchionna trasposta in epoca post moderna), Milena ammetterà di essere vedova. E’ poi la volta di Alessandro, uomo buono ed eccessivamente debole, tanto da esser succube della moglie Gina, modenese che pone la seduzione, il fitness ed i continui selfie al centro della propria esistenza, e sulla cui fedeltà nutrono forti dubbi le cognate. Un’ulteriore differenza con il film di Monicelli sta nell’assenza sia del figlio di Lina e Michele che della figlia di Alessandro e Gina (ragazzina che desidera partecipare a Temptation Island ma inesorabilmente impossibilitata a superare le selezioni in quanto in possesso di UN CULO CHE FA PROVINCIA). Ultimo ad arrivare Alfredo (ruolo che toccò ad Alessandro Haber e qui interpretato dal valentissimo Luciano Giugliano), omosessuale (verità mai confessata alla famiglia) e single, tanto da destare la preoccupazione di mamma Trieste, che vorrebbe vederlo in compagnia di una donna leale, sincera ed empatica come lei.
Riunitisi tutti Saverio chiede a Lina di aiutarlo a decorare l’albero di Natale, malgrado la riluttanza della donna che devolverà il compito ai fratelli, stanca ed infastidita dalla richiesta dell’anziano genitore; quest’ultimo porrà l’accento sul suo esser stato troppo permissivo e libertario con i figli, ciò che non fu suo padre con lui, e offrirà al pubblico una chiave di lettura estremamente drammatica della famiglia, di figli che sono cresciuti soltanto anagraficamente (Lina è una donna viziata che non ha mai imparato a sbucciarsi la frutta, pretendendo fieramente che la madre lo faccia per lei, i fratelli ancora si fanno portare la colazione a letto dalla donna). L’immaturità si declina in varie forme per ciascuno di loro, e Saverio è forse l’unico ad averlo capito, celato dalla sua dimenticanza.
Nel corso delle scene si passa da un’innocente benevolenza filiale (memorabile la scena in cui Alessandro intona “Mamma, solo per te la mia canzone vola”, seguito dai fratelli e ballando allegramente con Trieste) ad atteggiamenti di facciata, incamminandosi in pettegolezzi e luoghi comuni tipici della provincia, perdendosi tra scandalismo e senso del pudore, tra cui la descrizione delle fattezze di Ornella Muti. Lo squillo di una campanella irrompe prepotente e riporta il silenzio in casa. Trieste corre alla finestra coprendosi il capo con un velo, le luci vengono spente. Il suono della campana ricorda a tutti i figli che devono baciare la mano dei genitori, in segno di reverenza e di osservanza religiosa. A rompere il silenzio religioso e a portare altri banali discorsi sono la preparazione della tavola e le notizie trasmesse alla televisione, il medium che narcotizza coscienze assopendole nell’ignoranza, ed i comici tentativi di Saverio di familiarizzare con la lingua inglese.

L’ipocrisia di ciascun componente (eccezion fatta proprio per i due anziani genitori) si evince dall’accorata preoccupazione che i figli hanno nei loro confronti per l’utilizzo di un braciere che riscaldi la camera da letto, in netto contrasto con la decisione che Trieste comunica di lì a poco: trasferirsi a vivere a casa di uno di loro, evitando così l’ospizio cui aveva precedentemente pensato.
Consapevole del disagio che la nuova presenza comporterà, la donna li intima di non preoccuparsi, e di rifletterci con calma, dal momento in cui si trasferiranno “A primavera, se Dio vuole, quando la stagione si riscalda“. Inoltre a chi li accoglierà andrà metà delle loro pensioni, oltre che la casa di famiglia.

Un silenzio gelido si abbatte sulla casa e sui volti di Lina, Michele, Alessandro, Gina ed Alfredo. Melchionna dipinge con un realismo crudo ed impressionante la fedeltà al film di Monicelli: nessuno dei figli vuole perdere il proprio benessere, né rinunciare alle proprie abitudini, così comincia una vertiginosa “Morra cinese“ a chi sarà il “Fortunato” erede di tale patrimonio umano. La soluzione che appariva tanto semplice a Trieste crea un lacerante dissidio tra i figli; le frasi fatte, le ipocrisie accatastate con leggerezza lasciano il passo a liti, scontri diretti e violenza: tutte le parole non dette vengono urlate in faccia. I parenti si riuniscono continuamente, ed in assenza di Alfredo, decidono che sarebbe proprio lui il più indicato a prendersi cura dei genitori, in quanto l’unico a non avere legami e a vivere da solo. Ed ecco che, con un magico effetto domino, crolla la prima pedina di un puzzle conservatore e bigotto: Alfredo, con un forzato coming out, dichiara di non avere intenzione di rinunciare alla propria indipendenza, a “Dieci anni di training autogeno“, giacché convivente da dieci anni con un vigilantes di nome Mario; le sorelle, in balia ad una meraviglia artificiosa, gli chiedono come sia stato possibile che non avesse mai sentito il bisogno di confidarsi almeno con loro, ed Alfredo risponderà che la logica conseguenza di una madre iperprotettiva e di un padre succube non poteva che essere l’omosessualità. A questa affermazione risponderà Alessandro, domandandosi come mai pur essendo cresciuti con gli stessi genitori egli non sia gay; provocatoriamente Alfredo gli ricorderà che, malgrado non sia omosessuale, non ha mai amato una donna onesta. Ed ecco il successivo smacco, senza trucco e senza inganno: Gina e Michele sono amanti, all’oscuro dei rispettivi coniugi.
Il delirio intriso di rabbia di Lina verrà interrotto dall’arrivo di Saverio e Trieste, in compagnia di zia Clementina, e da una profetica notizia annunciata al telegiornale: la catastrofica ed inevitabile fine è annunciata dalla morte di una coppia di anziani nell’esplosione di un appartamento a causa di un malfunzionamento di una stufa a gas. Tutti si guardano negli occhi, decisi e razionali, questa può essere e sarà la soluzione. Il sipario cala sulla stufa consegnata in qualità di regalo di Capodanno agli anziani genitori, che si dissolveranno in una coltre di fumo e i figli che come delle prefiche prezzolate piangeranno l’improvvisa scomparsa dei propri cari, rivolgendosi al pubblico che assume il volto dei compaesani.
Un Natale che bussa alle coscienze, quello di Luciano Melchionna. I parenti sono “Extranei“, non “Autentici”, perché mossi dal fardello degli interessi.
“L’enfer c’est les autres“, sosteneva Albert Camus. L’inferno sono gli altri, ma non altro da noi. Purtroppo, spesso, sono gli stessi fautori di quei legami di sangue in cui non nessuno dovrebbe creder mai.
