
George Steiner era nato in Francia, a Neuilly-sur-Seine nel 1929, da una famiglia di ebrei viennesi.
Con la sua famiglia per sfuggire al nazismo nel 1940 lasciò l’Europa per trasferirsi a vivere negli Stati Uniti.
Nella sua lunghissima carriera di accademico e critico letterario, ha pubblicato oltre venti opere, che spaziano da Heidegger all’eredità di Antigone e della tragedia greca nel canone occidentale.
Steiner è stato docente a Princeton, a Cambridge, a Ginevra, ha scritto per testate giornalistiche internazionali e per decenni è stato il critico di punta del New Yorker.

Per la sua inclinazione alla filosofia e alla letteratura, diceva che alla sua base c’era il suo stupore, che si può usare la parola umana sia per amare, costruire, perdonare e anche per torturare, odiare, distruggere ed annientare.
Era un ebreo laico, scriveva e parlava in inglese, tedesco, francese ed italiano, aveva visto scorrere davanti ai propri occhi la storia del Novecento, abbracciava con la propria cultura la storia dell’Occidente dalla Grecia antica ai grandi romanzi russi, da Shakespeare all’abisso della Shoah.
La Shoah era un punto di non ritorno nel destino europeo che per Steiner era rimasto un tema centrale.
Scrisse il romanzo “Il processo di San Cristobal”, edito in Italia a inizio anni ’80, dove immaginava che Adolf Hitler fosse sopravvissuto alla distruzione del bunker di Berlino per essere poi catturato nella giungla amazzonica da un gruppo di cacciatori di nazisti.
Tra i suoi saggi più noti vi sono il “Dopo Babele” del 1975, dove analizzava la comunicazione umana come un continuo atto di traduzione, “Nel Castello di Barbablù”, “La lezione dei maestri”, “La passione per l’assoluto”.
Il suo motto era “Datemi un tavolo da lavoro e sarà la mia patria”; una dichiarazione d’amore per una comune patria delle lettere e un deciso rifiuto di ogni retorica nazionalista.
All’italianista Nuccio Ordine negli ultimi tempi aveva confessato la sua preoccupazione e la amarezza per l’aumento dei gesti antisemiti in Europa e per i populismi che agitano il continente.