
Sono passati ormai quindici anni da quel pomeriggio d’agosto in cui la vita della giovane Sarah Scazzi si è spezzata per sempre. Una vivace ragazzina di quindici anni, con sogni semplici e desideri quotidiani, usciva di casa per andare al mare, ignara che quel desiderio innocente avrebbe segnato per sempre la storia della sua comunità.
“Saretta”, come la chiamavano i parenti (serpenti), in quel giorno in cui sognava l’abisso del mare, il destino la spinse in un abisso di silenzio: l’acqua gelida di un pozzo, invece di quella che avrebbe dovuto rinfrescarla tra i baci del sole salentino. La sua scomparsa, all’inizio, sembrava un caso di cronaca come tanti, destinato ad aprire altro dolore ma a chiudersi in fretta. Invece, divenne uno dei processi più seguiti e discussi d’Italia, aprendo squarci inquietanti nei legami familiari.

La verità che emerse nei mesi successivi fu spietata: Sarah fu uccisa in casa di chi avrebbe dovuto amarla. La gelosia, il rancore, la realtà paesana, la dinamica torbida che coinvolse la cugina Sabrina e la zia Cosima segnarono per sempre l’immaginario collettivo. Le condanne, gli ergastoli, le confessioni parziali, varie e incoerenti dello zio Michele e i silenzi pesanti, composero un mosaico di orrore che andava oltre il delitto stesso: era il tradimento del sangue, l’ombra più scura proiettata dalla luce degli affetti.
Le aule di tribunale, si trasformarono in veri e propri palcoscenici mediatici. Telecamere ovunque, interviste a raffica, ospitate televisive, un degno scenario da diretta del sabato sera. Una palese e indecente spettacolarizzazione del dolore. Ancora oggi, resta impressa la crudeltà di un annuncio di morte dato in diretta: un momento che ha aperto un dibattito feroce sul confine tra cronaca e voyeurismo, in cui la tragedia si trasforma in intrattenimento e la vita spezzata in un prodotto da consumare. Ed è qui che, vergognosamente, l’informazione smette di informare e diventa abominio.

A quindici anni di distanza, quella vicenda torna a vivere, attraverso anche la serie di grande successo su Disney+ (Qui non è Hollywood), capace di raccontare senza compiacimento e senza clamore. Non una fiction patinata, ma una narrazione che scava nelle pieghe della provincia dell’Italia meridionale, dove l’apparenza di normalità nasconde tempeste. Il pubblico ha risposto con numeri straordinari, segno che il bisogno di capire, o forse di esorcizzare, non si è mai spento.
Oggi, resta una domanda sospesa: come può il male annidarsi nel cuore delle relazioni più intime? Non ci sono risposte definitive, solo una consapevolezza amara. Avetrana è un nome che non evoca più solo un luogo, ma una ferita nazionale. Eppure, in quell’abisso, un’immagine resiste: un fiore che tenta di sbocciare dentro un pozzo buio. È il ricordo di Sarah, fragile ma ostinato, che chiede silenzio e verità in un mondo che spesso ha preferito il rumore.

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