

L’attesa di un film di Paolo Sorrentino rappresenta per un appassionato di cinema un momento sempre controverso, poiché questi è consapevole che dovrà confrontarsi con circostanze e fatti spigolosi, che ti sbattono sul volto, che fanno stare lì a riflettere. Le opere del cineasta partenopeo ingenerano di frequente, in chi guarda, quel misto di travolgimento emotivo ed inquietudine, un po’ – verrebbe da dire – l’immagine stridente di un fiume di luce che scorre nel deserto del Gobi.
Ebbene, volendo racchiudere in un breve abstract “E’ stata la mano di Dio“, ultima opera dell’autore, verrebbe da dire che Sorrentino ha inteso – e preteso – di dedicare a se stesso 2 h e 10 minuti di cinematografia di alto livello, concedendosi un lavoro di “ricostruzione interiore” senza guardare poi tanto al pubblico, alle etichette, alle candidature americane. Il film pare una variopinta tavolozza di emozioni, i cui colori non sono sempre nitidi e che, anzi, finiscono inesorabilmente con il contaminarsi. Il cineasta non si preoccupa di dare fluidità, continuità, omogeneità alla sceneggiatura – che ad un occhio asettico e poco empatico potrebbe tradire qualche piccola crepa – ma butta fuori tutto quello che egli associa al periodo certamente più complicato e di “ri-nascita” della sua vita, seguìto alla prematura scomparsa di entrambi i genitori, durante la sua adolescenza. E lo fa come in un brainstorming. Il che se da un lato non restituisce allo spettatore l’immagine di una narrazione cinematografica sempre ordinata e fluida, dall’altro conferisce una inedita e apprezzabilissima autenticità all’opera che – lo si vede chiaramente – deriva senza filtri dal profondo “io” dell’autore, qui impegnato in una azione di “repulisti esistenziale”. Del resto, l’evocazione di un ricordo è tipicamente contraddistinta dal susseguirsi di immagini, ricordi e sensazioni che vengono fuori così, come dal cono di un vulcano in piena eruzione.
In questo film il regista dà le spalle al pubblico e si gode lo spettacolo, in particolare le debolezze del giovane protagonista “alter ego” Fabietto Schisa e della co-protagonista, una Napoli degli anni ’80 pittoresca e poetica, complessivamente afflitta da sofferenze in cui si fanno largo piccole o grandi gioie, l’arrivo di Diego Armando Maradona su tutte.
“E’ stata la mano di Dio” non è forse la migliore opera di Sorrentino, a volerla valutare secondi i rigidi canoni della critica cinematografica – che pure ne apprezzerà l’ormai inconfondibile tratto Felliniano, seppur intriso di napoletanità – ma è certamente la pellicola più autentica del regista partenopeo, il quale generosamente concede agli spettatori una boccata di “verità” e, ancor più, il privilegio di poterlo osservare da vicino, anzi nel profondo interiore. Il che rappresenta già un miracolo in un’epoca artificiale e “impaillettata” come quella attuale.