
Ho sempre pensato che quando si scrive si è costretti a guardarsi dentro, in quanto si è soli con se stessi, si sente il proprio respiro, si vedono le immagini racchiuse nei ricordi.
Vengono giorni in cui non si ha voglia di inforcare la penna o di pigiare sui tasti di un computer perché la propria esistenza sbadata annoia e non conosce entusiasmo di vita. Perché scrivere è (per i pochi eletti che hanno il privilegio di comprenderne la bellezza) come vivere e credo che il momento in cui mi mancherà il coraggio di continuare la mia vicenda ugualmente verrà meno il coraggio di scrivere.
Con le parole messe in fila come piccoli soldati, accostate in un certo modo, si può parlare della vita, di se stessi, delle emozioni che ci prendono e delle domande che ci opprimono.
Si attraversa il proprio tempo, con le stagioni che lo hanno scandito, si pescano ricordi, si (come in un puzzle letterario) ridisegnano visi e si rimettono insieme parole di persone care, che non si rivedranno e con cui non si parlerà mai più.
Si traducono in prosa schegge di vita, si cambia e ci si trasforma e alla fine la contabilità sul dato e avuto è solo un’arida esposizione di numeri. Il saldo non è mai positivo perché il tempo non fa sconti, non è indulgente, non conosce ripensamenti.
La scrittura ci lascia un bagaglio di cose fatte e viste, di errori, slanci, amori, emozioni, tradimenti, disillusioni e rinunce. Ci lascia a volte un freddo nell’anima che nessun sole riesce mai a riscaldare, un buio che nessuna luce può squarciare.
Scrivere agevola in uno dei compiti più ardui e non sempre ben svolti, prendersi cura di qualcosa o di noi stessi; aiuta a non vederci perdenti, incapaci, inetti, in una parola: irresponsabili.
Colpevoli, se il concetto di colpa così cattolico e insulso non fosse improprio, del nostro male di vivere, di quella strana sensazione di freddo mista a malinconia che ci entra dentro senza bussare. La smettiamo di piantare semi pensando che vedremo un giorno spuntare dei fiori, di affidarci al mondo con un sorriso, di sfidare l’orrore della nostra epoca con l’arma dell’intelletto, convinti che possa disorientare e mettere in fuga l’ignoranza e la povertà di troppi e rivelarsi un’arma mai spuntata per combattere una società priva di valori, violenta, indifferente e condizionante.
Non si può andare in giro scalzi e scoperti sotto la pioggia per lunghi percorsi. Senza autostima o speranza il cammino diventa faticoso e la pioggia non bagna più i nostri sogni come un tempo, perché abbiamo smesso di sognare. Non sappiamo quando e come sia successo ma un giorno tutte quelle costruzioni serene che ci vedevano protagonisti sono crollate come giganti dai piedi di argilla, come gli scenari desolanti di grandi case che guardavano il cielo dopo i secondi interminabili dei terremoti, quando attorno non restano che macerie. Ci aggiriamo come sopravvissuti attorno a quello che resta di noi stessi, senza più ancoraggi o speranze, soli con un vuoto disperato che non sappiamo riempire. Non basta la musica o un amico, non un discorso o una soddisfazione professionale o scolastica. Il vuoto è là, pieno della sua immensa, inesauribile vacuità, del suo non essere che una morsa allo stomaco, un senso di desolazione e smarrimento.
Non pensiamo più alla presenza ma alle assenze. Ci manca una persona e quel posto lasciato vacante non riusciamo a vederlo occupato da altri. Ci mancano le piazze, gli amici di un tempo, le ideologie e la voglia di cambiare il mondo che attraversava una generazione. Oppure ci mancano i suoi occhi, i suoi capelli, i suoi baci. Ci mancano le sue parole o i silenzi che promettevano un futuro già abortito.
Eppure la scrittura, le parole distribuite con l’accortezza dei fogli di uno spartito musicale, possono colmare quel vuoto.
E’ tempo di rimettere insieme i pezzi, quando il vuoto che abbiamo dentro diventa l’unico vestito che indossiamo. Rappresentiamo un piccolo granello di vita, monadi irripetibili nelle loro unicità e per questo speciali, ognuno indistintamente. La scrittura può insegnarci a prenderne consapevolezza, allontanando chi ha rubato l’anima dell’uomo sostituendolo con un algoritmo, gli schiavi del consumo, gli strateghi del profitto, i pianificatori della produttività, i protagonisti di vite riflesse, ogni intercapedine riempita di musica assordante e pasticche, ogni emozione respinta e l’umanesimo estinto.
Il sole può tornare su di noi se attraversiamo strade in cui splende senza la pretesa di ignorarlo e di tornare nel buio in cui siamo avvolti. La scrittura, la dialettica spesa bene, la nostra intelligenza, la volontà, i desideri, e perché no, la nostra piccola pazza dobbiamo riunirli perché siano un’invincibile armata pronta a ridarci noi stessi e quella insostituibile propensione, quella voracità di vita, quello slancio che rappresenta la nostra capacità di progettarci. E di sognare.