
Con “Monster: La storia di Ed Gein”, Netflix prosegue il suo percorso oscuro tra i volti del crimine americano. Questa nuova iterazione si addentra in territori ancora più torbidi, portando sullo schermo non solo la follia di un uomo, ma la desolazione di un’intera epoca. Charlie Hunnam, in un ruolo che segna una netta inversione rispetto ai suoi personaggi più iconici, offre una performance disturbante e silenziosamente devastante, che lascia lo spettatore in uno stato di inquietudine difficile da scacciare.

La serie si sviluppa su un impianto narrativo più sobrio rispetto alle due serie antecedenti: “Monster – La storia di Jeffrey Dahmer” e “Monster – La storia di Lyle ed Erik Menendez”. Questa terza stagione, non cerca lo shock immediato, né rincorre la morbosità con la stessa insistenza. Al contrario, il male qui è sussurrato, suggerito negli sguardi, negli oggetti quotidiani che diventano portatori di orrore, nei dettagli nascosti in una casa che sembra immobile nel tempo. La regia sfrutta la lentezza come strumento di tensione, lasciando spazio al vuoto, al non detto, a quelle pause cariche di significato che fanno più rumore di una confessione gridata.
Charlie Hunnam è il cuore pulsante di questo viaggio. Il suo Ed Gein non è un mostro urlante, ma un uomo spezzato, dominato da una madre assente e onnipresente al tempo stesso, prigioniero di rituali grotteschi che mascherano un bisogno disperato di appartenenza. La recitazione è misurata, fatta di piccole contrazioni, occhi sfuggenti e sussurri più taglienti di una lama. Una trasformazione che strabilia e convince.

Hunnam sorprende per la sua capacità di annullarsi, di scomparire nel personaggio, lasciando emergere una figura crudele e malata ma tristemente umana. Non c’è compiacimento, né ricerca del gesto teatrale: la sua interpretazione è tutta interna, trovando il giusto equilibrio tra mostro e uomo, fatta di tormenti e silenzi che pesano più delle parole. È il lavoro di un professionista che non vuole dominare la scena, ma lasciarsi inghiottire da essa. L’attore britannico, ha dichiarato di essere rimasto sul set una settimana di più per riuscire a “strapparsi” quella gelida pelle di quell’oscuro personaggio che ha interpretato, andando anche a visitare la tomba di Gein, come gesto simbolico, per congedarsi dal ruolo.

La serie, tuttavia, non è esente da rischi. A tratti, il ritmo dilatato e la narrazione ellittica potrebbero scoraggiare lo spettatore più impaziente. Alcuni episodi si prendono libertà narrative che rompono l’equilibrio tra documento e finzione. Ma forse è proprio lì che si trova il suo valore: non nel raccontare la cronaca, ma nel tradurre l’inesplorabile attraverso il linguaggio del cinema. Monster è come una casa abbandonata ai margini di un campo: da fuori sembra vuota, ma chi si avvicina abbastanza sente ancora i passi sul legno, le voci tra le pareti, e quel freddo che non viene dal vento, ma da qualcosa che non se n’è mai andato davvero. Non racconta solo il male, ricorda che, a volte, il terrore più profondo è ciò che si sceglie di non guardare.
Il caso di Ed Gein è un promemoria della complessità della mente umana e della sua capacità di commettere atti orribili. La sua storia, fonte tetra di ispirazioni per altri killer come: Richard Speck e Jerry Brudos; e fonte d’ispirazione artistica per registi come Alfred Hitchcock con “Psycho”, Tobe Hooper con “Non aprite quella porta” e Jonathan Demme con “Il silenzio degli innocenti”, serve come monito sull’importanza della salute mentale e della prevenzione del crimine. Nonostante la sua morte, la leggenda di Ed Gein continua a vivere, lasciando più domande che risposte sulla natura umana.
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