
Un incontro di razze, un incontro vissuto in clandestinità. Basterebbero queste due sole parole: “razza” e “clandestinità” per rendere quanto mai attuale il testo di Marguerite Duras “L’Amante” ambientato nell’Indocina del 1930 e letto per il pubblico del San Carlo, nell’ambito dell’undicesima edizione del Napoli Teatro Festival, da un’eterea Isabelle Huppert di bianco e oro vestita. Sì proprio questi dettagli l’oro delle scarpe da sera e il bianco candido dell’abito e della biancheria sono così precisamente descritti nella prima parte della lettura, preludio a quell’incontro d’amore che segnerà per sempre le vite dei due protagonisti. Quindici anni e mezzo lei, 27 lui, figlia di poveri coloni lei, ricco ereditiere cinese lui. Un amore impossibile che si consuma nell’interno di una stanza che diventa la loro stanza, alcova di passione proibita, unico rifugio possibile da un mondo che non accetta le diversità e che continua a farlo alzando barriere.
Così l’attrice francese ripercorre i momenti più salienti del romanzo, con la sola voce e il dolce suono della lingua francese (sottotitolato in italiano) alternato da brani musicali, uno su tutti il walzer di Chopin. E’ come se la scrittrice e quindi la sua interprete, giunta al termine della propria vita, sfogliasse un vecchio album di fotografie. Sembra di sentire la sua voce commentare le immagini, lasciando affiorare alla memoria paesaggi lontani: le acque potenti del Mékong, la casa materna. L’interpretazione della Huppert parte un po’ in sordina, per regalare al pubblico un crescendo finale che culmina con lo straziante addio dei due amanti, di quel traghetto che va e di quel ritorno a distanza di anni in cui la voce dell’amante pronuncia alla cornetta del telefono quelle due semplici parole che nella loro essenzialità dicono tutto “C’est moi”.