
L’Orrore! Esclamava, spirando, il colonnello Kurtz, il personaggio emblematico di Apocalypse Now di F.F. Coppola, ispirato al romanzo “Cuore di tenebra” J. Konrad. L’Orrore. Qui alla mostra, gratuita tra l’altro, di Peter Greenaway dal titolo “Atomic bombs on the planet earth” fino al 9 dicembre, nella sala dorica presso Palazzo Reale a Napoli, la parola mi ritorna alla mente, accompagnata da un naturale istinto di fuga, dalla nausea, dallo stato d’ansia che ti mettono addosso le esplosioni atomiche catalogate e rappresentate per la mostra del cineasta inglese, uno dei maggiori viventi. “Io sono un figlio dell’uranio: nato tre anni prima che la bomba atomica fosse sganciata su Hiroshima; diventato adulto nel corso della campagna europea per il disarmo nucleare; padre di una figlia teenager quando nel 1989 cadde il muro di Berlino”. Così inzia una nota testuale dello stesso Greenaway a corredo del materiale rappresentato sugli schermi.
Una moltitudine di esplosioni che rimbalzano su sei schermi giganti, posizionati davanti agli spettatori, che rappresentano quelle effettivamente documentate e che emergono da scritti, archivi e documenti visivi, dal 1945 al 1996 e che sono 2201 su tutto il globo. Ma lui stesso immagina che siano in realtà molte di più e che non sono note per ragioni di segretezza. Il problema è che con la situazione di massiccio sfruttamento attuale delle risorse di combustibili fossili, la data di scadenza dei giacimenti si avvicina sempre di più. Si dice 12 anni. Questo dato riapre le porte al discorso sull’energia nucleare, che torna a essere attuale sui giornali, nei media e nelle discussioni familiari.
La mostra vuole semplicemente mostrare quale sia in realtà l’enormità del numero di esplosioni e di conseguenti radiazioni che hanno colpito la terra. Domanda: ma il nucleare non era stato seppellito? Non era diventato impellente il bisogno di ecosostenibilità per quanto riguarda le economie, i modelli aziendali, gli impianti? L’ambiente non era diventata la priorità di tutti gli Stati? Ogni commento alle esplosioni rappresentate è superfluo, ritiene Greenaway, che si limita a rappresentare il materiale catalogato. “Siamo sicuri che non arrivino i Barbari?” conclude la nota. Non ci resta che aspettare i barbari, allora e se non arrivano, potremo sempre riflettere sui versi di K. Kavafis (era una soluzione come un’altra, dopo tutto…).