Nel trentesimo anniversario della sua fondazione, la Familie Flöz ha presentato in prima nazionale al Bellini di Napoli, la sua ultima opera, “Finale”, che celebra il teatro stesso come luogo di nascita, morte e rigenerazione simbolica.
Scritto e interpretato da Fabian Baumgartner, Lei-Lei Bavoil, Vasko Damjanov, Almut Lustig e Mats Süthoff, per la regia di Hajo Schüler e Anna Kistel, lo spettacolo intreccia tre storie archetipiche di perdita, sacrificio e rinascita, che diventano metafore sia dell’esistenza che del ‘fare’ teatrale.
E nell’affabulazione che incanta il pubblico, una folla di vite e di personaggi, più o meno pittoreschi e singolari, si succedono interpretati unicamente da tre attori!

La maschera e il corpo: il linguaggio del sentire
La celeberrima compagnia internazionale berlinese nasce nel 1994 da un gruppo di studenti del corso di mimo della Folkwang Universität di Essen, che ha la fortuna di annoverare tra i suoi insegnanti anche Pina Bausch, e che intraprende un’avventura del sperimentale, nel suo singolare utilizzo delle maschere, che lo stesso gruppo costruisce per esplorare nuove forme espressive.
La Familie, influenzata e potremmo dire erede della scuola del teatro di figura e della pantomima di Jacques Lecoq, fa della centralità del corpo la cifra del proprio veicolo poetico. La maschera diventa superficie psichica, schermo proiettivo su cui lo spettatore deposita le proprie emozioni rimosse. Dietro la fissità del volto, il gesto disvela l’invisibile, incarnando quell’area transizionale winnicottiana dove realtà e fantasia si intrecciano. La dimensione da saltimbanco, nutrita di nonsense, è una corrente sotterranea che attraversa anche questa loro ultima fatica: Finale. Nei personaggi ‘flöziani’ – buffi, tragici e malinconici – si manifesta quella sottile tensione tra goffaggine e grazia che si fa allegoria della condizione umana di fronte al proprio desiderio.

Tre storie, tre sogni: l’archetipo come scena interiore
Un esercente notturno che si sacrifica per gli altri, un figlio che assiste la madre malata, una donna isolata nella natura: tre destini che riflettono miti universali: l’eroe che si offre, il figlio che perde il genitore, una donna che si ritira in una natura artificiale, fatta di luci al LED. Ogni storia è una declinazione del lutto e della trasformazione, tre momenti di un’unica parabola psichica. In essa risuona l’immaginario di Olga Tokarczuk, autrice che nei suoi romanzi dissolve i confini tra quotidiano e mitico, tra umano e cosmico. Come in Flights o I libri di Jakob, anche qui il tempo si frammenta e si ricompone in una narrazione composita, pluridirezionale, che non ha un fulcro e i cui personaggi non rispettano una propria ‘gerarchia’, così ogni gesto diventa eco di un altro.

La scena e le musiche
La scena è uno spazio di passaggio, non racconta una storia lineare, fa affiorare archetipi che agiscono nell’inconscio collettivo.
La scenografia, firmata da Stéphane Laimé e Mascha Schubert, non si limita a far da cornice alla narrazione, ma diviene personaggio tra i personaggi. Gli oggetti, mutevoli e polifunzionali, assumono funzioni diverse, diventano case, ospedali, rifugi, confini. Questa versatilità restituisce, sul piano visivo, una narrazione fantastica in cui la materia inerte si anima come in un sogno. Come i corpi degli attori, la scena è attraversata da un movimento ciclico di nascita, crescita, dissoluzione e rinascita. L’idea di Finale, nel suo senso esistenziale, non è la chiusura, bensì la ricorsività degli eventi: ogni fine è un nuovo inizio, ogni perdita un’occasione per ritrovare un motivo di trasformazione.
Le musiche originali di Vasko Damjanov e Almut Lustig, unite al sound design di Giorgio De Santis, non accompagnano la scena, ma ne delineano un controcampo emotivo. Il suono diviene eco del gesto, ne prolunga la vibrazione interna, instaurando un rapporto di reciprocità complementare tra movimento e ritmo.

L’eco del corpo e la memoria del gesto
Gli attori in scena incarnano, nel loro trasformismo continuo, la molteplicità pirandelliana di Uno, nessuno e centomila. Ogni corpo racchiude molte vite, e ogni maschera riflette una metamorfosi, rivelando la mutevolezza dell’identità e la sua genesi incessante e magmatica.
Il tema dell’album-archivio di famiglia attraversa implicitamente la drammaturgia: Finale è un succedersi di ricordi collettivi, in cui ogni figura evoca una memoria comune, della quale il pubblico diventa co-costruttore.
Lo spettatore non assiste, ma partecipa, il suo volto-maschera, il suo respiro, la sua attesa e il suo silenzio, concorrono a costruire il senso artigianale della drammaturgia invisibile. Nei vuoti interstiziali, nelle pause sospese tra un gesto e l’altro. È in questa mancanza, nel non detto e nel non palesato, che lo spettatore diventa co-autore dello spettacolo. Finale non è un epilogo, ma un ciclo che si rinnova. Il suo titolo allude a un possibile “ritorno dell’uguale”, come il riapparire di “un povero attore che si pavoneggia e si agita sul palcoscenico per il tempo a lui assegnato, e poi nulla più”.