
Un’intramontabile canzone cantata da Mina dice: “le strade piene, la folla intorno a me…”. Se si pensasse all’esatto opposto di questa frase ci si paleserebbe davanti lo stesso scenario scaturito da un appuntamento inaspettato. Fortunatamente non si tratta di nessuna pandemia, o meglio, la si potrebbe considerare tale, ma benigna, perché 66,3 milioni di utenti si sono barricati in casa per accendere il proprio Netflix e ipnotizzarsi davanti alla miniserie più vista di sempre: Adolescence.

Che cosa succede quando un adolescente di 13 anni viene accusato di omicidio? E’ così che questa miniserie targata UK pone sin dal primo minuto. Il protagonista è Jemie Miller, interpretato da Owen Cooper, talento scoperto come il sano neorelismo di altri tempi ha spianato la strada a grandi star del cinema, è un adolescente taciturno e introverso che si ritrova al centro di un’indagine per omicidio. Tanto di cappello all’attore protagonista, lontano da quella cerchia nepo-baby di cui ultimamente e prevedibilmente, se ne sente parlare; anche gli altri nomi del cast danno lustro ad Adolescence. Il padre di Jemie, Eddie è interpretato da Stephen Graham, attore tanto apprezzato e corteggiato anche oltre oceano; qui interpreta un uomo confuso e consumato da quel senso di colpa, da quell’ira che si scontrano con quell’amore paterno che non sa più come esprimere e soprattutto se esprimere. Poi Erin Doherty nel ruolo della psicologa infantile e Ashley Walters nei panni dell’ispettore capo Luke Bascombe.
La miniserie targata Netflix è stata scritta a quattro mani da Jack Thorme e dallo stesso Stephen Graham (a proposito di apprezzato e corteggiato) e diretta dal regista britannico Philip Barantini. Adolescence è composta da quattro episodi, ciascuno dei quali girato talentuosamente con un unico piano sequenza.
Questo filo narrativo teso e claustrofobico, tuttavia, ipnotizza lo spettatore che lo rende parte della serie come se fosse una presenza invisibile, una sorta di mosca che svolazza a destra e a manca per spiare e curiosare stati d’animo e testimonianze. Vive appieno quel realismo emotivo privo di effetto speciale e di colonna sonora invasiva: solo i silenzi, i dialoghi agghiaccianti e quei lunghi momenti di tensione psicologica a cui servirebbe una via di fuga, che non trova, almeno fino alla fine dell’episodio.

Come in “Arancia meccanica”, la serie obbliga a guardare e ascoltare quel disagio adolescenziale e quella crescente influenza silente di ideologie tossiche che si annidano nell’online, come “manosfera” e i social stessi.
Adolescence ha suscitato accesi dibattiti nel Regno Unito e altrove, diventando materia di studio nelle scuole, in cui non si limita a raccontare una storia ma mette sotto una lente di ingrandimento una crisi generazionale troppo spesso ignorata, ampliando di volume la fragilità delle famiglie, delle istituzioni e delle scuole. Una miniserie necessaria che cerca consapevolezza e mai consolazione. Cosa si sta facendo davvero per proteggere gli adolescenti di oggi?
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