
Arnaldo Pomodoro è passato a miglior vita e con lui scompare uno degli ultimi grande e apprezzabili maestri dell’arte italiana del ‘900. Nativo di Morciano di Romagna, classe 1926, Pomodoro ha dedicato la sua vita longeva a plasmare la materia, scavarla a fondo e inciderla per scoprire cosa si nasconde sotto la superficie delle cose. Un po’ come un bambino, affamato dall’ingenua curiosità, cerca di “vedere cosa c’è dentro”.

Le sue opere, potenti, lucide da specchiarsi, lacerate da solchi, non chiedevano di essere semplicemente guardate, osservate, Pomodoro voleva che esse fossero affrontate, come se ogni scultura fosse un quesito sulla condizione dell’essere umano.
L’artista romagnolo è celebre in tutto il mondo per le sue Sfere, monumenti inquieti e solenni, spezzando l’idea della perfezione: quei globi lucenti, apparentemente armonici, presentavano fenditure profonde, mostrando cosa ci fosse all’interno: ingranaggi, fratture, viscere fatte di mistero e di memoria. In quelle rotture, c’era tutto il suo estro: vedere l’arte non come consolazione ma come esplorazione di ciò che non si vede, dell’invisibile.

Arnaldo Pomodoro, oltre a deliziare il mondo con le sue sculture, è stato anche scenografo, architetto visionario e intellettuale generoso. Ha lasciato un’impronta anche attraverso la Fondazione che porta il suo nome, che funge da fucina di ricerca e sperimentazione.
Con la sua morte, sembra che una delle sue sfere si sia finalmente richiusa. Ma al suo interno, il cuore continua a pulsare. Le sue opere restano come stelle nere nel paesaggio urbano, grigio, macchine del tempo ferme nel presente, pronte a riaprirsi per chi sappia guardare. Le sue opere hanno attraversato guerre, utopie, disincanti, senza mai perdere né forza né integrità.

Arnaldo Pomodoro non scolpiva solo il metallo: scolpiva il tempo. E adesso che se n’è andato, resta il suono muto del bronzo che respira. Come una crepa nella realtà da cui filtra, ancora, una luce antica.
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