
La Cassazione dice sì all’utilizzo di Facebook per inchiodare il lavoratore fannullone.
Sembra paradossale ma è proprio così!
Tutto nasce in Abruzzo dove un imprenditore decide di utilizzare un falso profilo, per diventare amico del suo dipendente che a quanto pare, non era un grande stacanovista. Ha in questo modo monitorato il giovane stampatore, che anziché dedicarsi a torni e presse, preferiva trascorre ore ed ore ad aggiornare il suo profilo proprio nelle ore in cui percepiva lo stipendio.
Scatta il licenziamento, il lavoratore lo impugna chiedendo al Tribunale abruzzese il reintegro del posto di lavoro, si arriva fino in Corte di Cassazione ed è qui che avviene il colpo di scena. Infatti, la Cassazione dà ragione all’imprenditore dichiarando che la pratica di spiare il proprio dipendente su Facebook è “una pratica funzionale a riscontrare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale” in sintesi, una comune pratica di controllo sul lavoro.
La situazione appare sicuramente controversia in quanto, da un lato ci sono i limiti della riservatezza in cui confini, nell’epoca del 2.0, sono davvero difficili da individuare. Dall’altra, vi è il sacrosanto diritto da parte del datore di lavoro, di tutelarsi – verrebbe da dire in qualsiasi modo – da dipendenti svogliati soprattutto in questo momento storico in cui il lavoro, ma ancora di più un lavoro, bisogna tenerselo il più stretto possibile evitando condivisioni……