Cronista: “Presidente, novità di mercato?” Antonio Sibilia: “Stiamo vedendo, abbiamo pure andati a Milano.” Cronista: “No presidente, siamo andati a Milano.” Antonio Sibilia: “E pecché, si venuto puro tu?“…
Nell’ultima sera di vita di Antonio Sibilia, a lungo padre/padrone del calcio avellinese, l’Avellino che oggi non si chiama più U.S. come ai tempi del “commendatore” gioca una partita infrasettimanale sul campo del Perugia e strappa un pareggio a reti bianche tutto grinta, difesa e portiere pararigore. Proprio come sarebbe piaciuto a don Antonio, presidente a suo modo generoso con i calciatori ma spietato con gli allenatori. “Scienziati” li chiamava, in tono sprezzante, soprattutto quelli che avevano idee di gioco più moderne e spregiudicate. Vinicio o’ lione, però, Sibilia lo seppe apprezzare, almeno fino a quando o’ lione riuscì a sopportarlo. Chi fosse e cosa ha rappresentato Antonio Sibilia per il pallone irpino è fatto noto, così come erano note la sua loquela, il suo timbro di voce, la sua avversione per i giornalisti ficcanaso e per i sindacalisti. I sindacalisti finivano di solito licenziati, Luigi Necco invece, giornalista ficcanaso, finì gambizzato…Al centro del calcio avellinese Sibilia è stato un totem per trent’anni, ma in particolare agli inizi della sua gestione di quella squadra che al massimo aveva partecipato a campionati di serie C e che lui, occupandosi di tutto e su tutto comandando, dal magazzino delle divise al mercato dei giocatori, dal pullman di viaggio alla formazione da mettere in campo, riuscì a condurre prima in serie B e poi, anno di grazia 1978, nel paradiso della serie A, e pure a tenercela per dieci anni. In realtà negli ultimi anni di A lui già non c’era più, alle prese con qualche processo ingombrante e con qualche problema di salute forse causato da quelli. L’Unione Sportiva Avellino l’aveva pubblicamente lasciata nel 1983, ma forse la lasciò realmente solo un paio d’anni più tardi, ad un uomo per certi versi simile a lui ma afflitto da manie di grandezza, l’altro commendatore Elio Graziano…Secondo alcuni se ci fosse stato ancora lui, Sibilia, l’Avellino non sarebbe mai retrocesso dall’eden pallonaro, lui con le sue mille risorse e le sue milleuno amicizie. Amicizie non sempre nitide e quasi mai disinteressate, ma don Antonio era un padrone dell’edilizia partito da pala e piccone, la vita di guerra e poi quella di cantiere lo avevano reso furbo e duro; per sopravvivere alla fine della guerra aveva iniziato a fare il manovale, per fare carriera nel lavoro aveva cominciato a diventare amico di politici e politicanti potenti, che allora comandavano molto più di adesso, e quelle amicizie se l’era coltivate anche per aiutare la scalata della squadra di pallone. Le amicizie politiche in poco tempo lo portarono a chiedere udienza e a conoscere il vero capoufficio tecnico della Campania del tempo, Raffaele Cutolo. Cutolo, il camorrista riformato, volle provare sul campo quel montanaro di Montevergine, volle testarne aderenze locali e disinvoltura di impresa, anticomunismo applicato, e poi cominciò a prenderlo a benvolere, a fidarsi di lui, e in cambio della sua fedeltà a fargli vincere, si dice, appalti di sostanza non solo ad Avellino. Don Antonio, a cui la vita di cemento aveva insegnato che ogni cristiano deve sempre essere riconoscente a qualcun altro, era riconoscente al suo amico, fino a fargli recapitare una medaglia d’oro al valor sportivo nella pausa di uno dei tanti processi, adattando a postino il centravanti brasiliano Juary. Era l’ottobre del 1980, solo un mese più tardi il terrificante fischio di una tiepida domenica sera avrebbe squassato i cuori e sgarrupato le colonne portanti dell’Irpinia sconosciuta al resto d’Italia, e lui, don Antonio ex masto Ndonio, con la benedizione del “professore” avrebbe avuto via libera a diventare il podestà architetto e a rifare la città capoluogo a capriccio suo. Preveggente negli affari. E come ogni padreterno meridionale che si rispetti attaccato alla famiglia, che nel tempo gli ha dato soddisfazioni; il figlio Cosimino in particolare, che fra cantieri di papà e pallone di papà era decisamente più attratto dal pallone, e che, partito come calciatore dilettante e dilettante rimasto, in età matura e da trovar sistemazione ha scoperto la passione politica ed è arrivato a farsi eleggere prima presidente della Provincia e poi deputato. Quando si dice il servizio alla collettività. Papà Antonio ne era fiero.
Preveggente pure nel pallone, dove Sibilia scoprì, valorizzò e vendette al miglior offerente, che spesso era la Juventus, pedatori come Nobili, Onofri, Trevisanello Carlo, Reali, De Ponti, Criscimanni, Tacconi, Favero, Limido, Vignola, De Napoli, Cervone, Juary, Beruatto, Carnevale, Alessio. Per non parlare di quelli acquistati a quattro lire giacché a fine carriera o da rivalutare e che, sotto la sua autocrazia, hanno saputo (ri)assurgere alle cronache nazionali. Ecco perché il nome di Antonio Sibilia non può venir legato agli anni di ultima gestione della cosa pallonara avellinese, fra il 1994 e il 2000, anni di terza serie grami di soddisfazioni e terminati con contestazione popolare attuata nella forma della diserzione da stadio, fino a raggiungere l’obiettivo dei dieci paganti nell’ultima del campionato 1999/2000. Il nome Antonio Sibilia resta invece legato agli anni ruggenti del calcio avellinese, anni che per giunta ruggivano già di per sé. Alle domeniche di pallone e politica, di Agnelli ospite di De Mita in tribuna d’onore e che lo definì, non si è mai capito con quanto carico di ironia, “intellettuale della magna Grecia”; le domeniche delle mogli facilmente infedeli e di “una provincia-una squadra”, dei paesi dell’Irpinia che ammassavano tifosi allo stadio Partenio anche con mezzi di fortuna, dei calciatori accompagnati al campo da frotte in delirio. Le domeniche dei calciatori scossi dalla tragedia del terremoto, usciti dalle loro torri per stare fra i baraccati e lottare insieme per recuperare dignità civile e cinque punti di penalizzazione in classifica, fino a fare l’impresa. Le domeniche dei pranzi familiari a mezzogiorno in punto perché poi si doveva correre al campo per trovare un buon posto; le domeniche dei ragazzini che quando la partita era troppo affollata e pericolosa (su tutte quella contro il Napoli) rimanevano a casa incollati alla radio, e se aprivano la finestra la radio potevano anche spegnerla dacché da tutte le case gracchiavano le stesse, splendide voci mai sguaiate; le domeniche dei treni verdi in giro per il nord Italia perché la seria A spesso finiva ad Avellino; le domeniche degli operai e dei salariati che ancora si consideravano e formavano una classe sociale in curva nord, così come gli impiegati e gli insegnanti in tribuna Terminio. Le domeniche degli ultrà e del papa che fumerà in curva sud. Le domeniche dello “yellow submarine” inno non ufficiale perché il calcio era liturgia profana e non voleva ufficialità cretine; le domeniche della legge del Partenio e dello squadrone cantato perfino al festival di Sanremo. Le domeniche dello “Scusa Ameri”, se il calcio di oggi si è scordato della poesia di quello di ieri…A tutto questo e altro ancora è legato il nome di Antonio Sibilia ad Avellino, e seppure la cronaca non agiografica ci dica che il personaggio è quantomeno controverso, i pallonari non possono fare a meno di ricordarlo già con nostalgia. Che tempi, ragazzi.
Ricordandoci altresì che tale articolo dovrebbe pur sempre essere la nona puntata della rubrica sul miglior calcio campano, ci tocca scrivere qualcosa sul Napoli che ieri sera ha pareggiato in quel di Bergamo una partita che ha giocato per vincere e che ha rischiato di perdere. Niente di nuovo sul fronte azzurro, il Napoli gioca bene quando attacca e soffre quando ha da difendersi. Anche sul campo mai troppo cordiale del “Comunale” di Bergamo il Napoli ha fatto palleggio, ha tenuto quasi sempre l’attrezzo fra i suoi piedi, ha tirato non poco verso la porta avversaria, ha subito poco ma quel poco è stato quasi letale. Nel primo tempo non è successo granché, l’Atalanta ha cercato di non far tirare il Napoli pur lasciandolo fare; il Napoli nel primo quarto d’ora ha aggredito i padroni di casa e sembrava sul punto di passare, poi mister Colantuono atalantino ha ulteriormente serrato i ranghi ed è riuscito ad arrivare alla fine del tempo con maggior pace. Il secondo tempo è cominciato sullo stesso canovaccio del primo, azzurri a occupare quasi tutto lo spazio scenico e neroazzurri schiacciati sulla quinta. Poi è successo che Albiol al minuto 57 ha bucato un cross dalla sua sinistra e il conosciuto “carrarmato” German Denis, che il Napoli non avrebbe mai dovuto vendere, ha potuto incornare come con maestria sa fare il pallone dell’uno a zero per la Bergamasca. Il Napoli ha reagito con tigna e veemenza, mettendo proprio le tende nella metà campo avversaria ma non facendole molto girare intorno alla barricata. Rafelone ha messo dentro Lorenzino per Hamsìk e Jorginho per David Lopez al fine di ottenerne tecnica e facilità di passaggio in profondità, e invero la mossa ha dato qualche risultato apprezzabile. Callejon ha tirato sopra la traversa un pallone difficile da non mandare in porta, peraltro vuota. La squadra di casa reggeva lo sforzo soffrendo l’inevitabile e qualcosa di più, eppur l’andazzo sembrava condurre verso l’uno a zero finale e la nuova apertura di processo alla tattica di Rafelone. Al minuto 83 però l’altro ex, Luca Cigarini, volendo anche lui risultare decisivo contro chi l’ha mandato a cercar fortuna altrove, si è fatto ammonire per fallo di mano e così espellere per doppia ammonizione. Il Napoli dall’episodio a favore ha lucrato nuova convinzione, mentre l’Atalanta ha aggiunto ansia alla sofferenza. Negli ultimi dieci minuti, così stando i sentimenti dei due gruppi pedatori in cimento, il Napoli ha sfruttato la superiorità di spirito (prima che numerica) per pareggiare con Gonzalo (bel gol, in girata agile da dentro l’area, spalle alla porta e con il marcatore alle chiappe), per sbagliare un gol con Mertens, per trovare un rigore su caduta del subentrato Zapata, per sbagliarlo con Gonzalo. Sportiello Marco, giovane guardiaporta della Bergamasca, ha mandato a letto nervosi i fedeli del ciuccio. Sabato pomeriggio al San Paolo arriva la Roma, stiamo tutti tranquilli per favore.